Giuseppe Delle Vergini
San Marco in Lamis, sabato 23 febbraio 2019 - Ecco la 9° puntata di un racconto lungo - o romanzo breve - scritto da Giuseppe Delle Vergini anni fa. Lo stesso racconto è stato ispirato da un fatto di cronaca nell'infinita tensione che esiste tra israeliani e palestinesi e ha sullo sfondo la Shoah. E' la ricerca di un dialogo che vede la differenza di età dei protagonisti, la loro sofferenza e la passione per il bello e il buono, come può essere la musica, come elementi positivi per costruire la pace.
XVII
La costruzione del muro continuava come pure le proteste di chi era in disaccordo con la politica che esso rappresentava. Il Tribunale dell’Aja stava esaminando il ricorso di palestinesi e pacifisti mentre i familiari delle vittime avevano sfilato nella cittadina europea portando in corteo la carcassa dell’ultimo autobus fatto saltare in aria da un kamikaze. Il governo di Israele non riconosceva la giurisdizione della Corte perché considerava la costruzione del muro un fatto “di politica interna”. Ilda era preoccupata. Lo sfogo di Omar era frutto dei tempi. Anche se poi la cosa era rientrata ma non poteva durare. Quel ragazzo a casa sua doveva vivere tra tensioni e pressioni indescrivibili. O lottavi contro gli israeliani oppure rischiavi di essere accusato di collaborazionismo. Tutti i giorni forse cercava di raggiungere il centro di Gerusalemme per mendicare poche monete suonando il flauto, tra passanti indifferenti e di fretta, con il rischio di essere arrestato o vedersi sequestrare lo strumento. Sarebbe stato un dramma, perché era il suo aiuto alla sua famiglia per sopravvivere. Ilda era coinvolta dalla situazione che viveva Omar. Voleva fare qualcosa, sentiva di dover fare qualcosa. Aveva passione per la musica e capacità ma non i mezzi né il passaporto giusto e il suo futuro non prometteva niente di buono. Lei forse avrebbe potuto aiutarlo a cambiare le carte in tavola. Doveva però fare presto, prima che la costruzione del muro fosse terminata con il suo divieto assoluto di passare.
- I muri crollano - si ripeteva Ilda - ma fin quando restano in piedi fanno un gran male.
Ricordava il racconto di una donna di Varsavia, sua compagna di prigionia. Aveva qualche anno più di Ilda ed era stata una maestra Nel campo cercava di tenere viva la curiosità e la mente dei bambini per quel che era possibile in tanto orrore, facendo loro lezione di nascosto. Anche lei era sopravvissuta. Anni dopo aveva letto una sua intervista ad un giornale di Gerusalemme.
“Le condizioni nel ghetto di Varsavia erano terribili, inumane. I cadaveri giacevano nelle strade e nessuno se ne prendeva cura. Molti impazzivano o si suicidavano. Può sembrare assurdo ma quando fui deportata al campo la prima sensazione fu di sollievo perché finiva la segregazione dentro alle mura del ghetto, dove con rassegnazione si aspettava solo la morte, quasi fosse la libertà”.
Anche quel nuovo muro avrebbe portato sofferenza per chi non avrebbe potuto attraversarlo. Ilda si stava informando sulla vita dei palestinesi e continuava a seguire molto la stampa e la tv estere e quelle italiane che dedicavano spazio all’argomento. Non capiva molto di politica ma era chiaro come la questione fosse così ingarbugliata che venirne a capo sembrava una cosa impossibile. Però conosceva bene come troppe volte lo sguardo degli arabi per gli ebrei era carico solo di odio. Ilda cercava di comprendere, perché il suo fine era aiutare Omar. Il primo tentativo di trovare una borsa di studio era andato a vuoto. Si era scoraggiata ma non per questo doveva arrendersi.
- Vuol dire che per il momento continueremo con le lezioni di musica e di italiano. Nel frattempo mi verrà pure qualche idea. Comunque devo procurare a Omar un’audizione in quella scuola mista…
Le venne in mente che avrebbe potuto presentarlo ad alcune sue amiche e conoscenti. Erano persone sensibili e appassionate di musica. Magari insieme potevano trovare una soluzione o aiutarla con qualche loro contatto o conoscenza a fagli avere una borsa di studio o un’audizione da qualche parte. Si, quella poteva essere una buona idea. Nei giorni seguenti Ilda si diede da fare con telefonate e incontri per cercare di realizzare la sua idea. Ma ben presto si accorse con amarezza che appena pronunciava la nazionalità di Omar le sue amiche cambiavano atteggiamento. Anzi una le confidò in tutta franchezza che mai avrebbe aiutato un palestinese perché non poteva aiutare chi festeggiava con balli e danze gli attentati dei kamikaze in Israele.
- E ti consiglio di fare attenzione, Ilda. Perché gli arabi sono inaffidabili e approfittatori. Non mi meraviglierei se fra qualche giorno questo tuo meritevole studente ti svaligiasse la casa o ti facesse addirittura del male. Lo vuoi un consiglio? Rimandalo là da dove è venuto. E se proprio non riesci a farlo, porta pazienza ancora un poco. Poi per sbarazzartene ti darà un mano il muro che il governo sta giustamente innalzando tra noi e loro…
Ilda era rimasta senza parole. Quelle erano le sue amiche? C’era in loro tutto quell’odio? Forse non avevano tutti i torti perché i fatti davano purtroppo loro ragione e doveva accettare che la pensassero così. Ognuna aveva i suoi buoni motivi, le sue obiezioni ma soprattutto capiva che avevano paura. Paura di avere contatto con chi consideravano un nemico. Ilda questa volta si scoraggiò perché vedeva razzismo e discriminazione da parte della sua gente che pure era stata perseguitata proprio perché considerata diversa.
- La storia si ripete anche nel suo lato peggiore. Cambiano solo le parti – pensò amaramente.
Forse anche lei se non avesse incontrato e conosciuto meglio Omar avrebbe provato i medesimi sentimenti nei confronti dei palestinesi. Quelli della maggioranza, pronta a sottolineare la differenza tra noi e “loro”. Ad Ilda non restò che andare avanti con le sue lezioni. Era l’unica cosa che poteva fare per Omar. Almeno per ora.
XVIII
I carri armati piombarono come lupi sul quartiere di Omar una mattina all’alba. Il ragazzo fu svegliato da un rombo assordante e dalle urla dei suoi fratelli e di sua madre. Tutto attorno ogni oggetto tremava, le mura della casa sembravano dovessero crollare da un momento all’altro. Non capiva cosa stesse succedendo, sembrava un terremoto ma fu assalito dalla paura e in un attimo balzò giù dal letto dove dormiva insieme al fratello più piccolo, Yusuf.
- Presto, svegliatevi e venite tutti qui vicino a me! Restiamo insieme e tu Omar stai vicino a Yusuf!”
Il piccolo, cinque anni, piangeva e chiedeva della mamma.
- Non aprite le finestre né la porta. Spegnete la luce. Ripariamoci sotto al tavolo!
In tutto quel frastuono le parole della mamma echeggiarono come ordini di un generale.
- Ma cosa sta succedendo, mamma? - chiese Omar mentre abbracciava Yusuf in lacrime e le due sorelle Myriam e Fatma, terrorizzate e di poco più giovani di lui.
- Sono arrivati con i carri armati. State fermi sotto al tavolo e non muovetevi. Forza, non c’è tempo da perdere!
Omar trascinò le sorelle e il fratello sotto al tavolo. Tremavano tutti dallo spavento anche perché il rumore era insostenibile, impediva anche il respiro, le vibrazioni provocate dai blindati entravano nel corpo e lo scuotevano tutto. Sembrava che dieci palameccaniche fossero sull’uscio della loro piccola casa – erano solo due stanze a piano terra con una porta e due finestre – pronte a sventrare quelle povere mura. Nura, la madre di Omar, si avvicinò rapida ad una finestra e provò a guardare fuori. Ma non si vedeva niente perché i carri armati avevano sollevato una gran polvere che oscurava la vista. Ad un tratto i blindati si fermarono. Nell’improvviso silenzio creatosi dopo tanto frastuono cominciarono ad udirsi degli spari e dei colpi di mitra. Il frastuono pareva davvero finito, scomparso. In casa si sentiva solo il pianto di Yusuf che Omar cercava di zittire tappandogli la bocca con la mano. Fuori degli spari in lontananza. Nura era ancora vicino alla finestra quando all’improvviso si udì un terribile boato preceduto per una frazione di secondo da un forte spostamento d’aria che fece traballare ogni cosa e l’intera casa rovesciando sul pavimento la bottiglia posata sul tavolo. La madre di Omar fu scaraventata a terra, il ragazzo strinse a sé con tutta la forza che aveva i fratelli ma anche lui fu sballottato qualche metro più in là dallo spostamento d’aria della cannonata.
- Aiuto mamma! - urlò Omar!
- Stai zitto e ritorna sotto al tavolo! - comandò sua madre mentre anche lei si rialzava e correva ad abbracciare i suoi figli come a ripararli dal male. Un odore acre di polvere da sparo si diffuse in casa. Di nuovo partì un colpo dal cannone di un carro armato e di nuovo tutta la casa tremò. I bambini erano sconvolti, la bocca aperta e gli occhi sbarrati. Yusuf era così terrorizzato che aveva smesso perfino di piangere. Le cannonate furono ancora tre. L’intera famiglia restò frastornata, come sospesa in una bolla d’aria. Poi i motori dei carri armati ripresero a rombare ma in tutto quel fracasso si udì un rumore ancora più forte che scosse ancora di più la casa e la riempì di polvere. Omar andò nel panico perché lesse la paura sul volto di sua madre, lei che non si era mai spaventata e che in casa aveva continuato a tranquillizzare tutti anche dopo la partenza del papà e la morte del fratello maggiore.
- Stanno distruggendo la casa di qualcuno… Assassini! - disse a denti stretti la donna, abbracciando ancora più forte i propri figli.
- Perché mamma distruggono le case? - provò a chiedere Omar in tutta quella confusione.
- Perché sono i nostri nemici! - rispose sua madre senza guardare il figlio, come se rispondesse a qualcun altro.
I bulldozer continuarono a far vibrare ogni cosa ancora per un bel po’ e ben presto si ritrovarono tutti impolverati. Quando quella caos cessò e si ebbe la certezza che i carri armati si fossero ritirati - si udivano già le urla disperate e le imprecazioni della gente – la mamma di Omar, dopo aver sbirciato da uno spiraglio della finestra, uscì fuori. Omar la seguì. Il ragazzo rimase sconvolto dalla scena che vide. La casa di un vicino, a circa cinquanta metri dalla sua, non esisteva più. Al suo posto solo un cumulo di macerie polverose dalle quali spuntavano pezzi di misere suppellettili. La gente si era assembrata vicino a quello che restava dell’abitazione e urlava contro Israele e il suo esercito giurando vendetta. Alcuni brandivano dei kalashnikov e furono molte le scariche di proiettili sparate in aria facendo sobbalzare ogni volta Omar che non sopportava quegli spari. Non li aveva mai sopportati. Le donne piangevano, alcune erano più disperate di altre e si strappavano le vesti. Omar riconobbe le vicine, quelle che abitavano nella casa distrutta. Elevavano alte grida e alcuni familiari le consolavano. Il ragazzo se ne stava a guardare muto, a tratti come se la cosa non lo riguardasse. La confusione era grande, aveva addosso spavento e paura anche se il peggio sembrava essere passato.
- Perché hanno distrutto la casa dei vicini? - chiese Omar ad un suo amico anche lui fermo a osservare la scena.
- Perché il figlio della donna, un martire, si è immolato durante una missione contro i nemici. Stava per far saltare in aria un’auto bomba ma i soldati l’hanno fermato ad un posto di blocco e lo hanno ucciso. Così oggi sono venuti ad abbattere la casa di sua madre. Omar continuava a guardare tutta quella distruzione, attonito. A pochi metri c’era la sua casa e sembrava un miracolo vederla tutta intera dopo quello che era accaduto ai vicini. Ricordava bene Safar, quel ragazzo che ora chiamavano il martire e ricordava anche il giorno della sua morte, quando centinaia di persone si erano riunite davanti alla sua casa, come adesso, urlando vendetta contro Israele.
- Vieni, Omar, rientriamo in casa! - disse sua madre emergendo tra la folla.
Tutta la famiglia entrò e la porta fu richiusa.
Continua
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