Giuseppe Delle Vergini
San Marco in Lamis, giovedì 7 Febbraio 2019 - Ecco la 4° puntata di un racconto lungo - o romanzo breve - scritto da Giuseppe Delle Vergini anni fa. Lo stesso racconto è stato ispirato da un fatto di cronaca nell'infinita tensione che esiste tra israeliani e palestinesi e ha sullo sfondo la Shoah. E' la ricerca di un dialogo che vede la differenza di età dei protagonisti, la loro sofferenza e la passione per il bello e il buono, come può essere la musica, come elementi positivi per costruire la pace.
VII
- L’ultima volta che ho visto mia madre era una mattina gelida. Al campo ci tenevano separati dagli adulti e questa cosa permise ad alcuni di noi di sopravvivere. Io poi, suonando nell’orchestrina dei prigionieri, la vedevo raramente. Di notte però la sognavo e mi svegliavo tra le lacrime. Mia madre quel giorno non stava bene. Era magrissima, un fazzoletto nero le copriva il capo senza più capelli. Si faceva fatica a capire se era una donna o il suo fantasma. Avanzava barcollando verso di me, cercava di sorridermi ma era chiaro che doveva controllare il dolore e la debolezza. Io la guardavo in silenzio. Non sapevo cosa fare. Era mia madre però mi stavo imponendo di non riconoscerla, perché volevo, desideravo a tutti i costi rivedere di nuovo la mamma come l’avevo conosciuta: sorridente, allegra e piena di vita che correva con me nel giardino di Piazza D’Azeglio quando insieme si tornava a casa dopo la scuola. In quegli attimi non riuscii a pensare a niente. Non le dissi niente e per anni ho rivissuto nei sogni questa scena, provando sensi di colpa. A fatica e con passi lenti mia madre riuscì finalmente a venirmi vicino. Mi fece una carezza, cercò di darmi un bacio ma nel chinarsi sul mio viso cadde a terra senza più forze. Gli stracci che la coprivamo, perché erano stracci e nient’altro, si insudiciarono di fango. Subito arrivarono i Lagersprache a portarla via. I guardiani erano altri prigionieri come noi. La presero per le gambe e la trascinarono nel fango come fosse un animale. Io restai sempre immobile. In silenzio. Cos’altro potevo fare? Ero solo una ragazzina in un lager. Il respiro mi divenne grosso, ingombrante. L’aria sembrava non bastarmi e il cuore batteva forte, impazzito. Riuscii però a scorgere il lampo di un sorriso negli occhi di mia madre prima che il fango le coprisse il volto e i loro, continuando a trascinarla come una bestia moribonda, svoltassero l’angolo per scomparire tutti dietro alle baracche. Poi mi voltai, come un automa e ritornai alla mia baracca. Questa è l’ultima volta che ho visto mia madre. Avevo tredici anni.
I ragazzi nell’auditorium restarono in silenzio. A Ilda si inumidirono gli occhi. Per un tempo che le parve infinito nessuno osò parlare. Lei allora si rese conto delle lacrime che asciugò quasi con pudore e aggiunse:
- Per questo vi dico di non dimenticare. Perché tanto orrore, ovunque e contro chiunque, non si ripeta mai più. Mai più… Grazie.
L’auditorium fu scosso da un applauso, i ragazzi si alzarono in piedi. Alcuni di loro piangevano. Il preside le strinse la mano e una ragazza le consegnò un mazzo di rose. Era ritornata a Firenze dopo anni. Non l’aveva fatto volentieri e non era stato facile. Ma alcuni amici avevano insistito perché accettasse l’invito di una scuola a raccontare la sua esperienza di sopravvissuta ad un campo di concentramento.
- E’ importate che tu racconti la tua storia, nella tua città - le avevano detto.
Aveva induguato fino all’ultimo. Riaprire delle ferite tanto profonde non era semplice. C’era dentro un grande dolore. Soltanto chi l’aveva vissuto poteva capirlo. L’immaginazione e i film servivano a poco pur se spiegavano e raccontavano. E poi Firenze era sì la sua città ma i ricordi non erano tutti belli. Suo padre aveva dovuto svendere la casa in Piazza D’Azeglio nell’illusione di potersi salvare tutti e nascondersi in campagna. Una delazione dei vicini, questo il sospetto, aveva però mandato il piano all’aria proprio all’alba del giorno stabilito per la partenza. Poliziotti in borghese e squadristi in divisa nera avevano bussato alla porta di casa – chi aveva aperto il grande portone a quell’ora? – ed erano stati concessi loro solo cinque minuti per portare con sé un’unica valigia. Di minuti ce ne vollero ancor meno, tra la disperazione di tutti, perché le valigie erano già pronte ma per un’altra meta. Certo a Firenze era poi tornata, aveva trovato una nuova casa e suoi concerti come pianista al Maggio Musicale e al Verdi erano stati tutti dei successi. Ma dentro il dolore restava. Amava la città, le sue strade, i vicoli umidi d’invero e freschi d’estate, la gente schietta e semplice. Il Duomo, il Campanile, i colli, Ponte Vecchio. Però la sua città, da quella terribile alba, non fu più la stessa. Una parte di lei odiava Firenze, perché fiorentini furono quegli uomini senza scrupoli che la scaraventarono su un camion prima e poi su un treno buono forse per le bestie. Questo non poteva dimenticarlo. Nell’indifferenza di chi li vide partire. Così alla fine si era trasferita a Gerusalemme, sperando di trovarvi pace. Quell’invito a celebrare con degli studenti il giorno della Memoria le era giunto in un momento di debolezza e di ritorno d’amore per Firenze. Non aveva saputo resistere alla possibilità di un breve soggiorno in riva all’Arno e all’insistenza di chi l’aveva cercata. La scuola era un istituto professionale situato nella parte sud della città a Sorgane, una zona un tempo circondata dai campi che nel corso degli anni il cemento aveva però sconvolto, trasfigurandola. Enormi palazzoni dormitori – ma le raccontarono che per realizzarli c’erano voluti l’ingegno e lo studio di grandi architetti! – e il cavalcavia dell’autostrada violentavano le aree verdi e una collina miracolosamente rimasta intatta dalla frenesia di costruire. Perfino il cimitero del Pino, un tempo punto di riposo per le scampagnate di famiglia in bicicletta, sembrava a malapena sopravvivere tra i nastri di asfalto che lo assediavano. E poi ovunque centri commerciali invece che giardini. Ma i ragazzi della scuola erano stati attenti e pieni di affetto per quella vecchia signora, musicista sopravvissuta al lager, che dopo molti anni aveva deciso di raccontare il dramma che le era toccato vivere quand’era appena ragazzina. Quel viaggio le permise di rappacificarsi un po’ con Firenze, pur se ascoltare tanta gente parlare arabo nella sua città – a Sorgane c’era anche un piccola moschea situata in un garage – le sembrò così strano e in parte la mise a disagio.
- Ma i tempi cambiano e speriamo che la cultura della pace prevalga sul resto - si augurò mentre il treno partiva alla volta di Roma proprio dal binario vicino a quello che la vide deportata. Lei ripensò ai ragazzi incontrati, alle loro speranze, alla loro quotidianità fatta di motorini e sigarette e la confrontò a quella di Omar così diversa. La vita per un attimo le apparve di nuovo ingiusta.
VIII
Le notizie degli ultimi giorni non erano tra le più rassicuranti. Gerusalemme e tutta Israele erano di nuovo sconvolte dalla violenza. Gli attentati ad autobus e ristoranti sembravano non dovessero avere mai fine. Poi c’erano le autobomba che seminavano morte e terrore. La risposta dell’esercito non si faceva attendere: ai morti di una parte si aggiungevano quelli della controparte. Regnava la paura, i nervi di tutti erano a pezzi, l’allerta altissima. Ilda non sopportava più quella situazione. C’era ben poco da capire. La violenza aveva preso ovunque il posto della ragione. Perché non li lasciavano vivere in pace? Perché non si riusciva a trovare una soluzione politica che mettesse a tacere le armi? A cosa servivano tutti quei lutti? Da entrambe le parti l’unica cosa certa erano i morti. Nonostante tutto quello che stava accadendo Omar si era sempre recato a lezione. Aveva fatto progressi, stava diventando ogni volta più bravo e Ilda ammirava la sua tenacia e la passione per la musica. Aveva capito dalle poche parole dette dal ragazzo che era stata la madre, libanese di famiglia ricca che con la guerra aveva perduto tutto, a trasmettere al figlio l’amore per la musica. La donna era poi finita in un capo profughi durante la guerra del Libano e lì aveva conosciuto e sposato il padre di Omar, un ingegnere palestinese laureatosi a Roma. Infatti con sorpresa aveva scoperto che Omar masticava qualche parola di italiano. E così alle lezioni di musica si aggiunsero quelle di italiano. Ilda si accorse che stava affezionandosi a Omar. Quel pomeriggio poiché tardava ad arrivare – in genere era sempre puntuale –si scoprì preoccupata, come poteva esserlo una nonna.
“Che sciocca che sono!” disse fra sé “Magari ha la febbre oppure avrà difficoltà ad attraversare i posti di blocco. Certo, anche i nostri soldati dovrebbero imparare a distinguere chi è pericoloso e chi non lo è…”
Finalmente sentì suonare alla porta. Si precipitò ad aprire e con grande sollievo vide che a bussare era stato proprio Omar. Il ragazzo apparve tutto impolverato come se fosse caduto in un campo. Dal sopracciglio destro perdeva un po’ di sangue, ormai già raggrumato. Ilda provò spavento e subito spinse in casa il ragazzo, richiudendo la porta quasi a proteggerlo da un possibile nemico.
- Ma Omar, cosa ti è successo? Che hai fatto? - chiese impaziente.
Il ragazzo era turbato, aveva gli occhi inumiditi e colmi di lacrime.
- Niente. Ero in ritardo e nella fretta sono caduto. - Ilda d’istinto lo portò a sé come fosse un figlio. Aveva temuto il peggio. Nell’abbracciarlo il sangue del ragazzo le sporcò la camicetta bianca.
- Vieni, medichiamo questa ferita.
Portò il ragazzo in bagno, prese alcool e cotone e agì decisa mentre lui faceva le facce per il bruciore causatogli dal disinfettante. Non era niente di grave per fortuna. La ferita aveva sfiorato l’occhio, però il sangue si era fermato. Un po’ più in basso e avrebbe perduto la vista. Un cerotto fu più che sufficiente a risistemare tutto. Ilda notò comunque che il ragazzo non era del tutto sereno. Strano che una caduta lo avesse scosso così tanto.
- Sai cosa facciamo ora? - disse la donna dando un bacio ad Omar con la naturalezza di una persona di famiglia – Facciamo una bella doccia e nel frattempo laviamo questi abiti sporchi…
- Ma io devo ritornare a casa prima di sera…
- Non preoccuparti, si fa in fretta e mentre la roba si lava, in accappatoio mi farai ascoltare quello che hai studiato.
Ilda era stata imperativa. Spogliò in ragazzo che non fece in tempo a imbarazzarsi perché in un attimo finì sotto la doccia mentre gli abiti in lavatrice e poi stesi ad asciugare. A Omar toccò suonare in accappatoio. Il suo corpo adesso non emanava più sudore ma il profumo del bagnoschiuma. La doccia lo aveva rilassato, lo sguardo era tornato sereno e le note del flauto riuscirono a calmarlo. Ilda notò il cambiamento. Quando Omar era apparso sulla porta, con quella ferita e con le lacrime a stento trattenute negli occhi, si era spaventata. Ma ora che suonava al sicuro nella sua casa anche lei aveva ritrovato la tranquillità. La donna questa volta sembrò essere più indulgente. Spiegò bene i passaggi più complessi del brano che Omar aveva eseguito e insieme li riprovarono accompagnandolo al pianoforte. Ilda nello spogliare Omar si era accorta della eccessiva magrezza del ragazzo. Per un attimo aveva rivisto i corpi dei bambini suoi compagni di prigionia nel lager.
“Questo fanciullo non credo mangi tutti i giorni, accidenti!”
Come al solito gli aveva offerto un bicchiere di aranciata aggiungendo però dei biscotti. La novità fu gradita. Riprovarono di nuovo un passaggio complicato del brano e questa volta Omar suonò senza tentennamenti.
- Bravo! - lo incoraggiò - Come vedi se si prova e si riprova alla fine non esistono brani difficili!
Omar sorrise soddisfatto, aggiungendo in italiano:
- Hai ragione, signora professoressa!
Al che Ilda scoppiò a ridere.
- Adesso però pensiamo ai tuoi vestiti…- e tirò fuori asse e ferro da stiro per rendere più presentabili quei poveri abiti. Il ragazzo si accomodò in poltrona e guardò la donna stirare, silenzioso e attento.
- Devo scappare! - disse ad un tratto - Altrimenti scatta il coprifuoco!
Ilda fu travolta dall’agitazione del ragazzo che raccattò abiti e spartiti e in un batter d’occhi fu sulla porta.
- Allora vediamoci nuovamente fra tre giorni… - fece appena in tempo a dire con il ferro da stiro ancora in mano, mentre Omar già correva in strada per tornare a casa.
- Va bene! - rispose il ragazzo prima di scomparire dietro l’angolo della strada.
CONTINUA…
Link delle Puntate Precedenti:
1° Puntata (Il Muro) Pubblicata Sabato 26 Gennaio 2019
2° Puntata (Il Muro) Pubblicata Giovedì 31 Gennaio 2019
3° Puntata (Il Muro) Pubblicata Sabato 2 Febbraio 2019