Anna Piano
San Marco in Lamis, martedì 23 maggio 2023 - Erano gli anni sessanta quando Matteo decise di impiantare un vigneto a tendone, nei terreni della moglie, nell'agro Porcile delle Vigne. Distante da Foggia pochi chilometri, nella bella pianura di Capitanata, alla via del Mare. Erano circa dieci ettari. Un bel rettangolo vicino al capolinea Vigna Rizzi. Di fronte vi erano le scuole elementari. Accanto, poco distante, la casa cantoniera con una piccola chiesetta dove la domenica celebravano la Santa Messa. Quando Matteo iniziò a realizzare il suo progetto, la famiglia era locata a San Marco in Lamis.
I primi tempi vi si recava con il camion, Alfa Romeo 455. Scendeva e saliva la montagna tutti i giorni. Impregnato della cultura e tradizione sammarchese, nella loro terra portò frutti garganici e di Capitanata. Finalmente avrebbe potuto coltivare frutti che fino ad allora germogliavano nei terreni dei suoi amici, nei boschi sulla strada per San Nicandro, nei terreni di Brancia, sulla strada verso San Severo, al Calderoso, e all'Amendola. Il vigneto a tendone, come di moda a quei tempi nella Capitanata, si componeva di barbatelle di uva Italia, uva Regina, uva Cardinale, uva Tardiva, uva Sant'Anna, ecc. La prima ad esordire a tavola era l'uva Sant'Anna. Proprio il 26 luglio la prima raccolta, per consumo familiare. Aveva infatti poche piante. I suoi grappoli con chicchi biondi e tondi, diradati e leggeri, avevano il pregevole gusto delle primizie. La Regina, la più dolce. Il chiccho lungo, dal bel colore oro, a tavola ed anche al vino dava gusto e gradi.
L'uva Italia, dal chicco grosso e carnoso, veniva scelta per l'esportazione. Partiva per paesi lontani. I commercianti la pagavano bene, centoventi lire anche centotrenta al chilo. A tavola faceva un figurone, oltre ad avere un gusto corposo, senza eccedere nella dolcezza. Alcune piante producevano chicchi dalla buccia croccante. Rimaneva invariata nella sue caratteristiche organolettiche fino ad ottobre. Se ben conservata arrivava alle feste natalizie. L'uva Cardinale, nera e dolce non tardava a maturare. Era ottima e molto ricercata. La tardiva aveva il grappolo non grande. Fruttava poco ma si conservava insertata fino all'anno a seguire. Poteva modificarsi in uva passa. Il Moscatellone lo raccoglieva per venderlo alle cantine e farne vino delizioso. Solo il sole di Foggia e le cure di Matteo vi poteva riuscire. Per ultimo ricordo la Mennavacca gialla gustosa, si conservava bene sui tralci fino ad ottobre inoltrato.
Scelse le più deliziose delle uve di ogni forma: chicchi tondi, allungati, grossi o piccoli, polposi o croccanti, corvina, rosacea, più o meno gialla. Uve dolcissime a quelle meno caloriche, il sole della pianura pensava a risaltarne ogni caratteristica organolettica. Due spalliere di uva da vino, percorrevano l'intera proprietà, delimitando i confini con le cognate. Facevano bella mostra la Fragola nera, il Primitivo, il Trebbiano, il Montepulciano, la Malvagia nera. Ve n'era una nera come il carbone, dal sapore del miele, profumata come le rose di giardino e fortemente inebriante. Da luglio a novembre si raccoglieva, dalla primizia alla tardiva, nel susseguirsi dei tempi di maturazione. Intere famiglie vi si recavano. Provenivano persino dalla Campania. Si rifornivano per farne buon vino e bandire la propria tavola.
Da buon sammarchese, li accoglieva come fossero di famiglia. Non mancava di fare doni, dimostrando di tenere alla loro amicizia. Il capo-famiglia era il nonno, il signor Gennaro, anziano falegname in pensione. Proprietario di una attiva falegnameria dove costruivano porte e mobili in legno, lavorati finemente. Uomo di poche parole, nutriva una simpatia ed un affetto per Matteo, sincero e genuino. Era sempre lui a pagare. Figli e generi lo seguivano in armonia, felici di alleggerire le tasche del nonno. Raccontava di attendere con fremito questi giorni, tanto il benessere che ne usufruiva nel trascorrere qualche giorno all'aria aperta, calda ed asciutta di Capitanata; vivendo la raccolta e le attività dell'azienda agricola.
Il signor Gennaro era molto generoso. Alle cortesie di Matteo ricambiava con altrettanti doni, fra questi un bellissimo tavolo in legno massiccio. Grande abbastanza da poter accogliere a tavola l'intera famiglia, compreso gli amici ospiti. Doni realizzati con il cuore. Ancora oggi si mostrano in tutta la loro finezza e soprattutto a prova di una ridente ed infinita amicizia. Oggi Matteo e Gennaro si fanno compagnia nei Cieli più alti, quelli vicino al nostro Signore. Matteo parlerà delle sue viti ed alberi da frutta, Gennaro dei tanti mobili che ha realizzato per famiglie note ed anche semplici. Dalla potatura, alla raccolta, i lavori venivano eseguiti con professionalità e passione. Il vigneto sembrava un giardino per l'ordine e la cura. Nulla era lasciato al caso. Ogni pianta inserita in armonia pensando al benessere della stessa e della famiglia. Matteo non si accontentava. Sempre alla ricerca di nuove barbatelle, zalee, alberelli. Leggeva, si informava parlando con amici ed esperti di settore.
Il tendone era impiantato diviso per ettari. Al centro il tratturo. Arrivava fino alla strada opposta confinante la via per Castiglione. Sotto i tiranti aveva interrato piante dai fiori unici per bellezza, profumo ed anche per sapore. Si perchè alle rose gialle, rosse, bianche, seguivano le piante di carciofi e persino di cipolle. Anche loro sbocciavano fiori non meno belli, sebbene dal profumo discutibile. Quando si schiudevano, lo spettacolo era dei più appaganti. Un connubio di poesia applicata alla campagna, vestita di profumi e colori. Un intreccio di storia di chi per vivere è in cammino, talee nuove ed antiche. Acquistate nei vivai, conservati negli anni, dopo ricerche nelle campagne di amici paesani, durante i suoi viaggi con il camion. La concretezza del contadino si manifestava quando affilarati dopo i fiori, germogliavano cipolle e carciofi.
Ogni pianta di rosa aveva un colore diverso. La rosa bianca, aleggiava odori di primavera e bella stagione. Chiunque passava vicino, dopo il primo respiro, prolungava il secondo. Al piacere dell'odorato, si chiedeva cosa fosse. Lo sguardo andava spontaneo verso la rosa ridente e candida dai pistilli lunghi e gialli, folletti che danzano. I petali larghi come a raccogliere il lucente sole dell'agro foggiano. Le api, le vespe, le bianche ed eleganti farfalle, le si avvicinavano per nutrirsi. Era simile alla cucummèdda ,una rosa selvatica che cresce negli anfratti o fra i rovi delle coppe di San Marco, nella Fajarama dove il bosco si dirada.
La rosa gialla come bouquet di gioia, unite le une alle altre, nel mese di maggio, sovrastavano persino le proprie foglie. Matteo le aveva piantate non distante dalla dimora. Era un buon giorno festoso a due passi dall'uscio di casa. Si apriva in fretta al sole. Bisognava godersela , senza perdere tempo. Presto lasciava i suoi giovani e tondeggianti petali sulla terra, come coriandoli di sposa. Le sue spine, unghia di gatto selvatico, pungevano. Come nella favola di Rosaspina, gelosamente si difendeva da chi ne voleva raccogliere. Deterrente per i docili animali della fattoria che ne volessero fare titoli territoriali.
Al contrario la rosa rossa lentamente diveniva bocciolo. Prima di aprirsi, restava giorni fra le sue foglie, corteggiata dal sole. I primi petali si inarcavano al boccio, vestite di velluto. Le tonalità del rosso, sfumate alla luce, sforgiavano rossi intensi purpurei. Incarnava nella sua eleganza la nomea della regina dei fiori. Lo stelo lungo in ascesa porgeva il bocciolo in alto. Il suo buon giorno sembrava diretto alla Madonna.
Attaccate alla rete che delimitava il piccolo giardino, sempre in fiore, con le corolle riunite a mazzetto, le une accanto alle altre a formare un mantello verso il basso, la rosa rampicante color ciliegia, la Paul's Scarlet. Era la prima a fiorire e l'ultima ad adagiarsi al sonno dell'inverno. Costantemente ricca di bocci pronti a sbocciare. La rosa rosa si sfumava di altri colori. Madre natura la dipingeva con pennelli e colori finissimi. Come l'antenata rosa Gallica aveva poche spine. Ai primi di novembre ancora si mostravano ricche ad adornare il cortile. Per la fine di ottobre era pronto un bellissimo bouquet da raccogliere per portarlo, con amore, ai cari defunti il giorno della loro commemorazione, il due di novembre. Avvolgeva i freschi gambi con fogli di vecchi giornali. Nessuno ci faceva caso. I fiori erano così belli, che i passanti non potevano fare a meno di volgere lo sguardo
Un rettangolo di terra, non più grande di dieci passi per cinque, bastava a produrre ortaggi stagionali per l'intera famiglia. Ogni prodotto era speciale. Maturava con la dolcezza tipica del Tavoliere. Giusta per essere in sintonia con le ricette della cucina mediterranea, quella che ci è stata tramandata dalla tradizione. Accanto ai pali in legno di castagno, posati sui blocchi di cemento a formare la corona del tendone, lungo il tratturo centrale ed intorno ai quattro vigneti, Matteo aveva piantato alberi da frutta.
Una vera arca di Noè di flora o meglio di frutti dai gusti paradisiaci per dolcezza, aroma, densità e succulenza. Cominciava il fiorone, lu chelumbre, ficura a pprime sciure, dal frutto grosso e primaticcio, nel cortile adiacente la casa. Maturava in giugno, generoso per volume, aspetto, colore e forma. Teneri e non eccessivamente dolci. La buccia rimaneva di un colore verde pastello. Ne bastavano una decina per colmare la fruttiera. Non necessitava eccessivi trattamenti. Forte e generoso reggeva con l'albero del noce l'altalena per i momenti di riposo e svago.
Li verdesche con la pelle violacea e la polpa rossa. Il fico Dottato (ficura Vuttana) con la buccia sottile, bianchi o rossi, gustosissimi e molto diffusi nella terra, anche se asciutta, del Tavoliere. Giovanna li faceva asciugare al sole. Li riempiva con le mandorle e li passava nel forno. Durante l'inverno davvero deliziosi da consumare dopo pranzo o per un semplice aperitivo. Matteo aveva anche una pianta di fico vernino vernija Ficura a Ssante Petre, fico San Pietro, maturavano alla fine di giugno, con la buccia nera e la polpa rosso-violaceo. Sotto l'albero a gustarne era facile. Infatti si sbucciavano con facilità. Il secondo fiore era pronto fra settembre ed ottobre. Scrigni di dolcezza il frutteto di fichi. Era invece tardivo il fico Brogiotto nero . Un bell'albero vigoroso. Quando maturava, la dolcezza del suo fiore era tanta, fino a spaccarsi, lasciandosi gustare dalle api, uccellini ed altri insetti. Una vera goduria, i frutti del fico Troiano. Maturava i suoi fiori a fine ottobre. Sempre molto ricco, riempiva panieri per la famiglia e cassette per i fruttivendoli.
Ogni stagione nei terreni di Matteo lu Santmarchese, nell'agro del vigneto a tendone, sulla via del Mare, maturavano frutti nelle diverse specie. Ancora non terminavano i fichi che cominciavano a prendere il bel colore del girasole, i cachi. Man mano che passavano le lune, le foglie cadevano ed i frutti imperavano nel tratturo. Pelose e timide a prendere il colore giallo del sole, le melecotogne, senza farsi troppo notare, crescevano fino a diventare grandi come due mele gemelle. Il loro profumo inebriava la casa ed anche i tiretti. Erano ancora ai rami quando le foglie cominciavano a diradare. Giovanna li poneva nella biancheria per profumarla delicatamente, come era d'usanza. Oggi si adoperano deodoranti chimici che non sempre sono innocui alla salute. Cotti al forno o crudi, deliziose e digeribili, ottima merenda nelle settimane in attesa del Santo Natale. Alcune, le più grandi, facevano da ornamento sui pensili della cucina. Emblema dell'autunno, lasciava essenze di stagione.
Nell'oasi adorna non potevano mancare i melograni. I suoi fiori si accompagnavano alle rose sin dal mese di giugno. I petali rossi, fra le tante piccole foglie dell'arbusto, lo rendeva particolarmente piacevole all'aspetto. Su un lato del cancello d'ingresso, dava al cortile il tocco del giardino. Dimora felice di pettirossi e capinere, allodole e passerotti. I passanti si giravano a guardare come fossero monumenti. Quando i melograni maturavano, il rosso granato allestiva i tanti rami come alberi di Natale. I primi venivano raccolti per la festa dell'Anima dei Morti e Tutti i Santi. E' in uso a Foggia preparare, in occasione della ricorrenza dei Defunti, u grànekutte il grano cotto, lessando il grano tenero e condendolo con: il dolce vincotto, le noci, le scaglie di cioccolato ed i chicchi di melograno.
Due frondosi alberi di noce, gli stessi che fanno bella mostra di sé, nei boschi verso Carpino, si alzavano impavidi nei terreni di Matteo e Giovanna. Nel mese di giugno, proprio il giorno 24, i soliti amici ne chiedevano per preparare, con il frutto tenero dal mallo verde, il delizioso nocino. Liquore digestivo servito dopo pranzo, soprattutto durante i lauti pranzi festivi. Il noce con il fico tenevano la corda per l'altalena ai loro nipoti. Le risate dei bambini rimanevano nell'aura anche dopo la loro partenza.
Sotto i frondosi rami, ombrelli di frescura ed aria, letture e riposo venivano conciliati, persino esortati. La primavera nei campi e vicino la casa si presentava vestita di raffinatezza ed eleganza. Fiori bianchi, candidi, sfumati di rosa, dai petali le varie grandezze si aprivano sui teneri rami protesi verso il cielo o come bouquet al tronco, per le impeccabili potature eseguite da Matteo durante l'inverno. Il rosa, fiore di pesco, primeggiava sulle poche e piccole foglie. Il ramo gremito, ad ogni picciolo altri vicino. I cinque petali si sfioravano senza sgualcirsi, un fiore accanto all'altro. Tutti intorno come in una danza di musica orientale. Al centro, fra le corolle, stami e pistilli come ballerini sulla rotonda. Ponendosi sotto quei rami, volgendo lo sguardo verso il cielo, si intuisce la bellezza dell'eden.
L'albero del pero, vicino al pozzo, poco distante, per non essere da meno, sbocciava i suoi candidi fiori. Cinque petali bianchi, le corolle a grappoli intorno ai rami scuri. Scelta eccelsa per un dono d'amore. Senza reciderlo, basta condurre chi si ama ad ammirarli. Inutile è spezzare la loro già breve vita. Ed ecco che gli alberi di albicocche, come sciami di alveare, facevano capolino fra le foglie. Erano sempre tante. Il primo a prendere la scena era l'albero del mandorlo. Annuncio della primavera, poesia di amore. Simbolo di speranza e rinnovamento. Dopo lo spoglio inverno, la terra manifesta la vita con la rinascita come un sogno che si avvera, l'alba di un nuovo giorno, respiro dopo l'apnea, attimi sublimi di felicità. Ne aveva nelle diverse qualità: la mènnela muddesca, la mandorla dolce, quella amara. Quello potato basso, intorno ai quattro branchi principali, senza guardare verso l'alto, il volto poteva raccogliere profumi ed incanto avvicinandosi frontalmente. Un candore inebriante, come il velo muliebre che contorna il viso quando ci si avvicina ai sacramenti.
Nell'arco di non molto tempo, nel giro di una settimana, il fiore cambia, la stupefacente visione si dilegua. I petali cadono lasciando il posto al piccolo frutto. Senza far torto al fiore, anch'esso fa la sua parte fra le meraviglie del Creato. In primavera si desidera andare in campagna per vivere la festa della natura, girare per i monti del Gargano, percorrere il Tavoliere delle Puglie. Boschi, spiagge, ogni parte della nostra terra ha meraviglie da mostrare. Con l'arrivano delle rondinelle, anche i più ostili alle passeggiate, decidono di godere dell'aria aperta per vivere la novella stagione.
In un piccolo locale dove Matteo aveva il camino per fare gli arrosti durante l'inverno, le rondinelle tornavano per nidificare. Il nido costruito all'angolo delle mura vicino al soffitto, integro per anni, si riempiva di uova. A breve, beccucci aperti come fiori al mattino, per reclamare cibo e crescere in fretta. Per la fine dell'estate, dovevano essere pronte al lungo viaggio con le proprie ali. Era un via vai di voli e piroette. Si nutriva rispetto per queste splendide creature dal bavaglio rosso, il ventre bianco nell'abito di piume nere, affusolato. Nel vederle ci si chiedeva come era possibile il rinnovarsi del miracolo. Degli esseri così piccini capaci di percorrere distanze impensabili, di sorvolare i mari. Fedeli tornavano. La cartolina bucolica pasquale si realizzava nella realtà. Come non amarle immensamente!
Nelle campagne, il trascorrere del tempo, del giorno che cede il passo alla notte al sovrano inverno, l'alternarsi delle stagioni, non passa inosservato. Non è mai un'abitudine assistere alla tenera esplosione di vita della nuova stagione, alla terra bruciata dal sole cocente dell'estate, alle piante che chinano il capo per cercare ristoro dalle acque; Il lento spogliarsi degli alberi, per giungere alla quiete dell'inverno. Si sente il cielo silenzioso e spoglio alla partenza delle rondini. Vedi il falco paziente sorvolare in alto il cielo in cerca delle prede; sostare ad ali spiegate in equilibrio fra le correnti d'aria.
Vivere la campagna è una dimensione di vita calata nella natura, in osservazione, sentimentalmente coinvolti. Dall'inizio di giugno le ciliege cominciavano a maturare. Sparse intorno ai tiranti del vigneto, si susseguivano senza posa, colorandosi nelle diverse tonalità del rosso. La prima era la Vignola. Il suo albero alternava la produzione. Spettacolare vedere tanta rossa dolcezza, lucida ed a crocchie pendule sui lunghi rami. Alcuni erano talmente pieni che si piegavano al peso di tanto tesoro. Magari, l'anno a seguire, diveniva meno generoso, sebbene i frutti crescessero rigogliosi. Sembrava volesse riposare. Matteo seguì un principio di fondo nella scelta degli alberi, oltre alle diverse qualità, i tempi di maturazione. Dopo le diverse specie di Vignole, li cerase austìne, pronte le Ferrovia e poi le Durone nere e rosse. La cerasa marèna le Visciole e le Marasche: sopra la casetta del cane da guardia, più grandi e dure.
L'estate era una esplosione, nel loro giardino si poteva vivere solo di frutta, come nel paradiso. Degli argentei alberi di olive, la storia è quella che nasce dalla consapevolezza. Infatti, il suo papà oltre ad essere un ottimo commerciante e produttore di vino all'ingrosso, possedeva una tenuta ad oliveto del 1700, con più di tremila piante, belle e prosperose, a pochi chilometri da Foggia, fra la via del Mare e via Trinitapoli. “Allu Prévete” vi si accedeva dalla via del Mare, percorrendo la Trasonna e costeggiando la proprietà di Don Mario Pedone. Annesso al terreno una villa armonica da sogno, calda ed accogliente. Della stessa epoca. Provvista di servizi igienici. Ogni stanza aveva un camino. Al piano terra la rimessa, la stalla e la cantina. Da una parte si erigeva di un piano per accogliere l'abitazione signorile con balcone che dava su un giardino recintato in muratura merlettata. Al centro una graziosa fontana decorativa, a forma di catino, rotonda, scanalata a conchiglia; la parte centrale che si alzava per dare la caduta dell'acqua.
In fondo, non lontano dal tratturo, una cappella non grande, interamente affrescata. Un frate, all'imbrunire, intratteneva nella preghiera i numerosi contadini che abitavano nel circondato. Vicino la rimessa, un albero di gelsi secolare. Una scultura maestosa che alla mano dell'uomo non poco aveva contribuito la natura nei secoli. Locato al lato del caseggiato, sembrava una firma d'autore. Il nonno (nononne) aveva acquistato la proprietà da una particolare coppia. Pare fossero un prete ed una suora che per amore aveva smesso gli abiti a cui erano consacrati.
Le piante di olive erano distribuite in modo che potessero, tutte, prendere il sole. Non in fila come le vediamo oggi. Qua e là mandorli ed una infinita varietà di frutta, a dimostrare che si andava oltre il semplice principio del produrre al fine di arricchirsi, per giungere ad una espressione artistica. Un bel pozzo a cielo aperto con canneto ed arbusti di dolci giuggiole il cui nome scientifico è alquanto particolare, come lo sono i suoi frutti: Ziziphus jujuba. Sempre vicino al pozzo un albero di mele selvatiche. Quando mature, rimanevano aspre ed ispide.
Sul lato destro, guardando il cancello, cinque o sei alberi di pere dal profumo e sapore di limone zuccherato. Melograni, citronella, altre bellezze. La particolarità di Matteo, e forse anche del suo papà, era unire il fondo produttivo al tocco di giardino. Pertanto, non potevano proprio mancare tali alberi nell'appezzamento impiantato ed ideato dal protagonista la storia narrata.Chiamava potatori sanseveresi nell'opera di potatura e pulizia degli alberi dai vinghioni che si inerpicavano velocemente verso l'alto, alla ricerca della vita. Era ben attento a fascinarli e a conservarli in un angolo del cortile. Utili come il pane per l'inverno. Davano una forma raccolta intorno al troco. Persino un bambino o una signora potevano provare a salirci. Sensazione dimenticata quella di arrampicarsi sugli alberi, trovare il ramo dove stare comodi per guardare intorno, per gustare il suo frutto, per pensare o meditare. Gli argentei alberi di olivo offrivano frutti sin dall'autunno. D'avuliva, Matteo aveva impiantato: la quaratina, la fuggiana, la lèccina, la jugghiarola, la peranzana e quelle dolci.
Nel tempo in cui gli alberi dolcemente si spogliavano per il riposo invernale, ed i cieli si acquietavano nell'assenza degli uccelli migratori, faceva capolino, nell'orto dietro la casa, fra foglie verdi brillanti e ruvide, grandi come ninfee nelle lagune, la rigogliosa zucca gigante. Sono segni delle stagioni, colorano i campi con i loro colori.
Persino le erbe selvatiche commestibili nascevano varie sui terreni e nella cunetta, quando ancora esistevano, anni 68-80. Allora, era presente la figura del cantoniere. Si prendeva cura dell'intera strada, compreso il ciglio ed i canaletti. Spuntavano marasciulle, agghieta, cascigne, ruchela, vurrajena, caccialepre , lampascione, cecuriedda, il cicorione, la portulaca, i finocchietti. Nella Trasonna, la tenera borragine dalle foglie pungenti. Profumava le insalate miste ed a tavola lasciava un profumo da stimolare ogni appetito. Sulle sponde dei torrenti, dove i terreni sono umidi, si trovavano carnosi cardoncelli (li carducce, ancora oggi si cucinano per Pasqua a spezzatino con la carne e le uova).
L'inverno, mentre gli alberelli riposavano, come ad un letargo, Matteo pensava alla potatura delle viti, per dare loro maggior salute. Con l'aria fredda la pianta soffre meno le recisioni. La cicatrizzazione è agevolata. I rami eliminati venivano ordinati in fila nella legnaia o raccolti in fascine. La fredda casa, lontana dal riparo di altre abitazioni, si scaldava bruciandola, generosa e solenne nel camino e nella stufa a legna. Grappoli d'uva tardiva, inserte di pomodori formavano la provvista per l'inverno. Lo stesso: le conserve, la salsa ed i pomodori pelati, le mandorle, i fichi secchi; cachi e le pere nella paglia; le olive in salamoia. Le ciliege a marmellata, le amarene sciroppate o nel rum. Le crostate Giovanna le farciva con le confetture di albicocche, prugne, ciliege, tutte di sua produzione. Con la mostarda di uva da vino, i calzoncelli. Insieme alle cartellate, passate nel vincotto bollente, realizzava i dolci tipici del Natale.
Nella campagna di Matteo, c'era un bel pozzo d'acqua a cielo aperto ed un forno a legna, costruito interamente da mastre Geseppe (Segatora) di San Marco in Lamis. Negli anni settanta, il pozzo era ricco d'acqua. Si tirava sopra con il secchio in zingo, legato ad una catena che rotolava intorno alla carrucola appesa in alto, proprio al centro della trave retta da due pilastri laterali, tutto in cemento. Era piacevole berla, succhiando, con il volto che sfiorava l'acqua, forse come fanno i cavalli, gli asini... Aveva un sapore di fresco e di buono. Limpida e liscia, persino il bucato raggiungeva un candore particolare. Steso all'aria, il sole terminava l'opera. Una favola che in breve tempo ebbe fine. Le colture intensive e le continue irrigazioni, le perforazioni per i pozzi artesiani, hanno fatto calare le falde acquifere. L'acqua nel pozzo sparì. Chissà se i nostri figli e nipoti potranno vivere questa esperienza, prima consueta e scontata nelle nostre belle campagne.
Anna Piano