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San Severo, martedì 21 marzo 2017 - La prima volta del Consiglio Regionale in Capitanata per testimoniare vicinanza alla città di San Severo, colpita dalla escalation criminale. Nel mio intervento ho evidenziato come il tema abbia radici profonde. Già nel 1989, nella prima relazione della commissione parlamentare antimafia, si lanciava l’allarme sull’aumento delle estorsioni, degli incendi dolosi, degli attentati dinamitardi, oltre che di scippi, furti e rapine che denotavano un notevole incremento di attività delinquenziali e cospicui profitti illeciti.
Una geografia criminale che non è cambiata di molto in oltre 25 anni, nonostante le numerose operazioni portate a segno delle forze dell’ordine. La Capitanata presenta organizzazioni criminali che hanno ben delineate zone d’influenza ma che operano con una certa autonomia, segno che il tessuto criminale dauno è molto fluido, anche se presenta metodologie di stampo mafioso.
L’Antistato che si è radicato in Capitanata è frutto di un più profondo malessere che non può essere riconducibile solo all’analisi del disagio sociale, ma richiama il tema della meridionalità, ovvero di una terra che appare come un giardino fiorito, ma che non ha saputo fare i conti con la sua identità schiettamente rurale. In Capitanata molte città, sorte come aggregazione della manodopera agricola, hanno finito per smarrire la loro funzione per lasciare il passo all’incertezza sul proprio ruolo di comunità, intesa come luogo dove dare aspettative alla emancipazione sociale.
La crisi agricola ha causato la fine dei centri urbani quali aggregatori ed educatori di migliori condizioni di vita, alimentando una rivisitazione urbana del banditismo rurale, quale brigantaggio del ventunesimo secolo.
Niente più scorribande nell’assolata pianura del Tavoliere a taglieggiare gli agricoltori o dedicarsi all’abigeato. Meglio la rapina veloce, pochi euro ma meno rischi, soprattutto meno “colleghi” criminali da coinvolgere. Si può essere da soli, in due, massimo in tre. Si colpisce velocemente, anche con una certa violenza, e si scappa, nell’attesa di ripetere il colpo a breve, anche a distanza di poche ore dal primo evento criminale.
Ritornando nel campo agricolo si è assistito a un processo particolare. I centri urbani, nati come aggregatori dei lavoratori agricoli, hanno emarginato quanti vivono e lavorano nelle campagne. La città non è più luogo inclusivo, ma si fa portatrice di emarginazione sociale, tra gli stessi abitanti (nelle nostre città abbondano sempre più le differenze tra i pochi che hanno tanto e i tanti che hanno poco) e con i lavoratori delle campagne, costretti a vivere ai margini della civiltà, spesso con l’ottusa complicità di quella stessa civiltà che non è più luogo di condivisione ma di differenziazione sociale.
Ed è un tema che parte da lontano e che ha portato a iniziative anche clamorose, come lo sciopero dei lavoratori impegnati nella campagne del foggiano. Già nel 1995 i migranti, impegnati nella raccolta del pomodoro, avevano incrociato le braccia per chiedere migliori condizioni di lavoro, paghe adeguate, vitto e alloggi all’altezza di un paese civile. Allora, come oggi, quello sciopero servì a conquistare le prime pagine dei giornali e l’attenzione dei media nazionali, ma tutto finì in una bolla di sapone. Nessun provvedimento, nessuna denuncia, nessun cambiamento. Si è dovuto aspettare vent’anni per vedere un cambio di passo nell’affrontare la questione dei lavoratori agricoli. Nel frattempo sono cresciuti villaggi abusivi di cartone e lamiere e si è dovuto registrare la morte di qualche bracciante per ottenere l’interesse delle istituzioni e misure contro lo sfruttamento della manodopera.
Troppo poco, verrebbe da dire. Ma è meglio di niente. C’è una timida presa di coscienza, ma restano i problemi atavici di una questione cresciuta nell’indifferenza di tanti e che ripropone l’antico conflitto tra mondo rurale e mondo cittadino.
Ciò che succede fuori le mura di un centro abitato non interessa più di tanto. Non è motivo di sdegno. Non è ragione di esistenza per una società che vive sempre peggio la sua condizione di urbanizzazione. Le città sono come le campagne di un secolo fa. Avventurarsi per le strade, così come decenni fa succedeva per tratturi e sentieri, è a proprio rischio e pericolo. L’insicurezza accompagnata dall’indifferenza rende il terreno fertile alla criminalità, non necessariamente organizzata.
Quindi, gli episodi che ci hanno portato ad essere qui non possono essere catalogati come atti criminali. O meglio non sono solo eventi malavitosi. La criminalità che semina terrore nelle strade delle nostre città non è un fenomeno d’affrontare invocando più forze dell’Ordine, l’istituzione della Dia o maggiore controllo del territorio. C’è bisogno di altro.
Occorre risvegliare coscienze. Occorre pianificare azioni di educazione civica. Ma soprattutto occorre avviare una stagione di rivoluzione sociale, in modo da favorire integrazioni, socializzazioni, condivisioni.
La presenza dei consiglieri regionali a San Severo va in questa direzione. Prima di tutto ci siamo per testimoniare vicinanza al Consiglio comunale e, attraverso esso, a tutta la comunità sanseverese, spaventata da una escalation criminale che riesce a trovare spiegazioni in un contesto tradizionali di contrapposizione tra bande. La città di San Severo è vittima di questi ripetuti eventi criminali. Ed oggi non celebriamo una giornata di retorica istituzionale, ma testimoniano un fronte comune capace di fare argine alla criminalità, ma anche di ragionare sui temi che permettono il fiorire di organizzazioni criminali che minacciano la sicurezza dei cittadini pugliesi.
Esserci è un dovere politico, sociale, civile.