Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, martedì 28 settembre 2021 -  Si aspettava, spesso, che il sagrestano aprisse la porta della chiesa di Sant'Antonio Abate per la messa giornaliera delle 7,30. I chierichetti, due, si sedevano sui piccoli e scomodi gradini che portano in chiesa, guardando figurine dei calciatori o quelle dei santi. Poi la porta veniva spalancata. Si entrava, si andava subito nella sagrestia per indossare la “divisa” da chierichetto, e si attendeva l'arrivo del prete, don Angelo Lombardi. C'erano poche donne, tutte vestite di nero, che occupavano i banchi della chiesa. C'era un silenzio molto interessante: escludeva tutto quello che lì dentro non poteva entrare, e non aveva niente a che vedere.

Di automobili in circolazione all'epoca, ma anche come orario, erano pari a zero: non c'era nessun rumore esterno che potesse entrare in chiesa e distrarre le fedeli. Intanto don Angelo era arrivato e noi chierichetti già sapevamo cosa fare: prendevamo le ampolline con il vino e l'acqua, e ci mettevamo a fianco del sacerdote, per poter occupare lo spazio sull'altare. Leggevamo la Lettura e il Salmo Responsoriale, il tutto in un silenzio spezzato in un modo molto discreto, dalle voci delle donne vestite di nero. Erano degli “Amen” di remissione: come quando si dà il collo all'animale che sta per ucciderti. Sempre con il capo abbassato, le donne, rappresentavano una continuità della vita “nonostante tutto”, in un luogo sacro dove la discrezione la si poteva sentire con tutti i sensi.

Si viveva una sacralità non gridata: come se dio volesse sussurrare a quelle fedeli che era comunque lì presente, senza voler convincere nessuno. Si assisteva alla messa delle 7,30 per meglio recepire il messaggio cristiano. La santa messa della domenica delle 11 è quella più canonica: si deve!! andare per tanti motivi. Soprattutto per apparire: ci si mette l'abito buono e il pubblico presente è più numeroso. Nel “chiasso” domenicale il messaggio evangelico può sfuggire, invece nella messa delle 7,30 di una volta, nulla sfuggiva, quando si rispondeva “Amen”, si era consci della caducità della vita e della volontà di dio. Quasi una messa di accettazione del dolore. La chiesa alle 7,30 non era del tutto illuminata, e anche la poca luce predisponeva la mente ad isolarsi ancora di più, non solo il distacco tra i fedeli nei banchi era tanto, ma anche la mancanza di luce “accecante” ti proiettava in una dimensione francescana: poca luce e più chiarezza del Mistero.
 
Guardando noi chierichetti, le poche donne vestite di nero, sedute nei banchi, affiancavamo la messa mattutina a quelle che vengono celebrate per i defunti. Degli “Amen” che uscivano da bocche che non riuscivamo a vedere: per quanto avevano le teste abbassate, le donne vestite di nero. Con i rosari in mano e un velo che copriva il capo: erano così vestite poiché tutte vedove, oppure alcune avevano perso un figlio in giovane età. Quando il sacerdote prendeva il calice dal tabernacolo, si sentiva il rumore che faceva il coperchio quando lo si apriva. Un rumore netto, quasi un campanello che ti avvisava che da quel momento stava per succedere qualcosa di importante. Anche le ampolline scosse nel loro contenitore facevano rumore, amplificato da un silenzio di fondo. Il rumore clou era quando veniva scosso il campanello che avvisava la fine del momento di raccoglimento durante l'ostensione dell'ostia, prima della comunione.
 
L'ostensione, sembrava non finire mai! Descriveva un tempo innaturale che sulla Terra non si poteva vivere se non in una funzione religiosa di tanto tempo fa, di mattina presto. Quando le parole non erano poi così importanti: davano solo un senso compiuto alle azioni del sacerdote. Eravamo chierichetti di 6-7 anni. E con la buona volontà, non tutti i giorni, spesso ci alzavamo la mattina presto e attendevamo che il sagrestano aprisse la chiesa di Sant'Antonio Abate. Poi arrivava don Angelo Lombardi e il Mistero iniziava... con pochi fedeli, molto silenzio e rumori quasi domestici che ti riprendevano se ti fossi distratto. Anche ascoltando dio, a volte, si perde il filo del discorso...
 
 
Mario Ciro Ciavarella Aurelio