Mario Ciro Ciavarella Aurelio
San Marco in Lamis, venerdì 12 ottobre 2018 La cosa che non si spiegava era la vista straordinaria di gente non più così giovane, anzi con tante primavere ormai lontane da loro. Eppure vedevano, e vedevano lontano, anche a 20 metri di distanza. Lì dove il pallino stava aspettando le bocce, quelle grandi, di colore verde e rosso. Come se il pallino fissasse il vecchietto che, abbassato quello che bastava, prendeva la mira per lanciare la boccia il più vicino possibile al pallino che fungeva da meta.
E gli altri giocatori che aspettavano il loro turno, con le bocce in mano e spesso “nascoste” dietro il sedere. Non ho mai capito perché i giocatori di bocce nascondessero “i ferri del mestiere” dietro di loro. Come se su quelle bocce stessero scritte le coordinate dove lanciarle. Anche perché, il lancio variava come distanza, a seconda di dove si trovasse il pallino.
Qualche giocatore prendeva una leggera rincorsa, sistemandosi i bordi dei pantaloni, con delle mollette (“pizzecarola”) per tenere quei bordi attaccati il più possibile alle gambe: prova ardita di aerodinamica prima dell’avvento della Galleria del Vento. Il giocatore lanciava il pallino, molti lo lanciavano il più lontano possibile, e poi lanciava la sua boccia, magari scegliendo una rincorsa fatta di 2-3 passi, felpati, quasi vergognosi di farsi notare dai presenti. Poi il giocatore riprendeva la posizione eretta come se fosse una torre di guardia. E guardava l’orizzonte, per capire la distanza tra pallino e la sua boccia .
Spesso la boccia veniva lanciata, e non appoggiata e fatta rotolare sul terreno di gioco. La boccia lanciata faceva al massimo due saltelli e poi cercava di affiancarsi al pallino. Un corteggiamento che durava pochi secondi: il tempo di avvicinarsi e capire le possibilità di un “sì” da parte del pallino. Poi toccava all’altro bocciofilo con le bocce di colore diverso, doveva decidere se bocciare la sfera avversaria oppure se cercare di fare avvicinare la sua boccia il più possibile al pallino, e mettersi in mezzo tra la boccia avversaria e il pallino.
Il pubblico apprezzava e sperava che i giocatori bocciassero la boccia dell’avversario, per sentire quel “block”, questo era il rumore che faceva una boccia quando andava a cadere sull’altra: “block”. Un rumore unico che si poteva sentire solo su un campo di bocce. E non c’era replay: o lo si sentiva in diretta quel suono, oppure bisognava aspettare la prossima bocciatura. Dalle mie parti quando un giocatore di bocce era convinto che quel suo lancio non fosse granchè, si lamentava, più o meno così: “Che peccat, ì sbagliat lu tir, è tropp musc, c vuleva chiù forza”. A quella lamentazione, l’avversario lo rincuorava rispondendo: “Non t la chiagnenn” (non te la piangere, la boccia). Come dire: hai fatto un buon tiro, caro avversario, non lamentarti.
E c’era sempre una lavagnetta che primeggiava in fondo al campo di bocce, dove un ragazzino orgogliosamente segnava il punteggio.
I giocatori erano quasi sempre anziani, e se un anziano giocava ancora a bocce, significava che non solo aveva un’ottima vista, ma anche che la sua voglia di disputare quello sport non era mai finito. Come i giocatori di carte: sono sempre quelli e giocano tutti i giorni e spesso al solito posto con i soliti amici.
Quasi un club riservato a pochissimi eletti. E poi c’era l’arbitro, che spesso interveniva per decidere quale fosse la boccia più vicina al pallino. Il suo metro di misurazione erano due: le sue scarpe e un piccolo ramo, dritto!!
Quando le bocce distavano parecchi centimetri dal pallino, allora l’arbitro metteva a disposizione della giustizia sportiva le sue scarpe: faceva dei passi, posizionando le scarpe una dietro l’altra, tra il pallino ed una boccia. Le metteva in mezzo e contava quante scarpe potevano prendere posto!! Ma se la distanza tra pallino e boccia fosse di pochissimi centimetri, allora c’era il rametto che decideva quale boccia avesse vinto quel punto.
Il pubblico spesso prendeva posizione sedendosi su delle panche improvvisate che venivano appoggiate, con le estremità, su delle casse vuote dove prima c’erano delle birre. Era un pubblico silenzioso, un silenzio che faceva invidia a quello che si “sente” sui campi da golf. Ed era un pubblico severo: se quei giocatori fossero bravi, continuava a seguirli, altrimenti andava via dopo pochissimi minuti.
Nel mio paese dove anni fa c’era la sede della Polisportiva Sammarco, c’erano due campi di bocce, e in mezzo lo spazio per garantire il passaggio al campo da tennis e agli spogliatoi. Due campi sui quali vennero organizzati parecchi tornei di bocce. Un altro campo di bocce si trovava già negli anni ’60 in Via della Vittoria, dove di fronte c’era il Cinema Piccirella (entrambi scomparsi), e da molti anni c’è un negozio di Colori e Decorazioni.
Il terreno del campo di bocce ricordava l’argilla. E anche un po’ un campo da tennis in terra battuta. Chissà se avrò la fortuna di rivedere qualcosa del genere, e magari anche giocarci sopra. Senza aspettare di diventare anziano…
Mario Ciro Ciavarella Aurelio