Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, venerdì 21 settembre 2018 -  Il rumore che si sentiva alle 7 di mattina era caratteristico. Un cucchiaino che sbatteva all’interno di un bicchiere. Qualcosa di indefinibile, fino a quando non ci si alzava dal letto e si andava a vedere cosa stesse succedendo in cucina. Il bambino vedeva una sostanza gialla che veniva sbattuta con forza dentro un bicchiere di vetro. Un sole rosso e giallo che ci doveva dare sostanza, forza e vigore almeno per qualche ora.   

 “L’uovo sbattuto!!” era la panacea per quasi tutti i mali, tanti decenni fa. Più che malattie, erano disagi fisici, che non ti permettevano di vivere come avremmo voluto. È come se adesso sostituissimo le confezioni di vitamine che si vendono in farmacia come integratori, con le uova sbattute. Ed era una bevanda destinata soprattutto ai bambini e ai ragazzini che iniziavano ad andare a scuola.

 Quando lo sforzo mentale e fisico iniziava a farsi sentire, e quindi uova sbattute tutti i giorni, per iniziare la giornata scolastica, quando si doveva “avere a che fare” con altri ragazzini e soprattutto con lo studio. Il nostro nuovo compagno di vita, lo studio, richiedeva concentrazione e soprattutto tanta forza mentale per poterlo affrontare. 

 Quando un bimbo non rendeva molto a scuola, era il signor Maestro a suggerire ai genitori di quel bimbo, di fargli due uova sbattute la mattina, prima che andasse a scuola. Ma, anche se il bimbo sveniva in classe il suggerimento era sempre: due uova sbattute, oppure se il viso era troppo pallido: le solite due uova sbattute. Oppure se dimenticava di portarsi la cartella dietro: ci volevano due uova sbattute, se lo scolaro entrava sempre in ritardo in classe: due uova sbattute…

 Sono curioso di sapere quando non si consigliò più di fare due uova sbattute al ragazzino in età scolastica, da parte del maestro!! Però, contro le infezioni le uova non potevano fare nulla!! A scopo preventivo c’erano i vaccini, non tanti, quanti quelli di oggi, ma almeno quelli contro la poliomelite e il tetano.

 Per sapere se qualche adulto avesse fatto il vaccino negli anni ’70 e anche prima, basta vedere se ha “lu nzit” sul braccio destro (zona “musck”). Era la caratteristica ferita provocata dall’ago che veniva infilato sotto la pelle. I bimbi delle Scuole Elementari venivano chiamati dalle autorità sanitarie dell’epoca e accompagnati al Comune per sottoporsi alla vaccinazione.

 All’epoca il locale addetto a tale scopo, era l’attuale Ufficio dei Vigili Urbani, lì i bimbi con il grembiule scolastico diligentemente si sedevano e aspettavano il proprio turno. Quando uno dei ragazzini usciva piangendo da quella sala, si capiva che “lu nzit” era ormai compiuto. E così via, tutta la classe chiamata quel giorno era vaccinata e protetta. E poi c’era il “richiamo": si ricominciava da zero. Qualche amica un po’ più grande di me, ricorda che sempre in quel locale, anni prima, gli scolari venivano sottoposti anche alla radiografia del torace. Esame che qualche anno dopo, non era più previsto.

 L’igiene non era molta, diciamolo: basti pensare che nel nostro paese agli inizi degli anni ’80, c’erano ancora delle famiglie che non avevano la fogna e quindi ci si arrangiava con il pitale (“lu pris”). Per dare degli “imput” importanti per quanto riguarda l’igiene, nelle scuole di tanti decenni fa, era d’obbligo da parte del maestro, di controllare la pulizia dei bambini, iniziando dalle mani per finire alle orecchie. E allora, il maestro armato di asciugamani e sapone accompagnava i bambini in bagno, dove si lavavano le mani (dopo aver preso le bacchettate sulle mani, che erano sporche, con ancora la puzza dell’aglio come “scudo protettivo”).  

 Per “sopperire” alla mancanza di igiene, non sempre continua ed  efficace, spesso si andava in “gita”, definiamole così. Ma erano delle uscite fuori porta che spesso non andavano oltre la “curva di Palatella”, dove d’inverno si facevano “li lipp” per il presepe. Ma tanto bastava per i bimbi per tenerli contenti e fargli ammirare la natura rigogliosa soprattutto durante la primavera.  

 Il nostro maestro (che non guardava le stagioni), ci portava spesso alla vigna di “Caperoscia”, dove c’era una cantina, e non disdiceva qualche bicchiere di vino. Era una zona di San Marco immersa nel verde, con alcuni alberi e un bel panorama che si poteva scorgere da quel posto. Le gite scolastiche ufficiali, nacquero molto tempo dopo: fino agli inizi degli anni ‘80 non c’erano per gli scolari.  

 Per fare una gita bisognava aspettare che si finisse la Terza Media per poter andare ad Alberobello, Fasano e Grotte di Castellana; questo era l’itinerario standard per i ragazzi delle Scuole Medie.  

 Lo svago per gli scolari di una volta non era molto, oltre allo studio, non c’era l’ora di ginnastica come sarebbe avvenuto qualche anno dopo alle Medie, ma ci si arrangiava come si poteva dentro il cortile della Scuola Balilla, con il Maestro che faceva da allenatore, arbitro e spesso giocava anche lui insieme ai ragazzini.

 Era unicamente un modo per coinvolgere gli scolari per fargli conoscere e rispettare le regole del calcio: non tutti a quell’età sapevano la differenza tra calcio di rigore e punizione. Naturalmente non c’erano divise da calciatori, ma si giocava con il grembiule addosso. Le porte erano delimitare da alcune cartelle appoggiate a terra, e la traversa si supponeva che potesse esistere fin dove… arrivava lo sputo del portiere: oltre, la palla era fuori(?!)  

 Un altro momento di “non studio” era quello che veniva riservato, durante la giornata del Sabato, al “Traforo”: una specie di “Applicazioni  Tecniche ante litteram. Era un set di bricolage anni ’70 composto da seghetti e altri utensili in miniatura per tagliare e piallare del compensato molto sottile, in modo tale che i bambini potessero costruire delle casette per poi colorarle.

 Per dare “spinta” a quei seghetti, ci si serviva della cera delle candele. Era un modo per sviluppare la manualità dei ragazzini e iniziarli a capire come da cose piccole, poi, puoi farne delle grandi. Così pure usando la “plastilina” (un miscuglio di olio, argilla e cera), si imparava a modellare figure “in 3D”, per capire come quelle figure create, erano molto diverse dai disegni fatti su un foglio. Si dava il senso della profondità e delle dimensioni.

 Disegnando e creando figure non sempre riconoscibili, gli scolari iniziavano a dire, in altre parole, quello che per loro era la vita. Sicuramente “non reale” come la realtà, che poi molti di loro dovettero affrontare. La bellezza dell’infanzia risiede proprio nel fatto che potevamo immaginare un mondo a nostra immagine e somiglianza.

 (Nella prossima puntata inizieremo a parlare delle Scuole Medie)

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio