a cura di Nicola M. Spagnoli
Roma, domenica 19 febbraio 2017 - Un artista poliedrico e dalla interminabile carriera iniziata negli anni sessanta e tutt’ora attivissimo ma noto agli appassionati, ingiustamente, soprattutto per aver militato nei capolavori dei Genesis di Peter Gabriel dal 1971 al 1977, in ben otto album, che fra l’altro sono i migliori di questo gruppo, da Nursey Crime al doppio dal vivo Seconds Out ma che da solista ha fatto ben 25 album in studio fino al recentissimo, e bellissimo, Wolflight di non più di un anno fa, disco che ha esordito con successo anche nelle chart italiane, più una quindicina di album dal vivo oltre ad una serie infinita di collaborazioni.
Una carriera quindi rispettabilissima e paragonabile a quella di più blasonati solisti del rock. Questo è il suo primo album solista (foto 1) dopo l’uscita dai Genesis anche se non proprio il primo-primo che fu Voyage of the Acolyte (foto 2) dell’anno precedente (1977) quando il nostro ancora non era uscito dal gruppo, disco questo che però sembra appartenere di diritto ai Genesis tanto non si distigue dai coevi del gruppo. Please don’t touch, invece, è decisamente diverso, di certo non il migliore di Hackett che maturerà molto in seguito ma pur sempre un disco estremamente piacevole e maturo, influenzato certo dal progressive ma non del tutto, essendo un lavoro molto variegato, un lavoro volto alla ricerca di nuove strade e, come dicevamo, quasi completamente cantato, da lui ed anche da ospiti importanti.
Una canzone soprattutto, una delle due cantate da Richie Havens, mi colpì ai tempi, una dolce ninna nanna a livello delle migliori di un Paul McCartney, How Can I? l’ultima della side A ma anche è stupenda la delicatissima strumentale Kim. Alcuni brani sono cantati da lui stesso ed altri insieme a Steve Walsh, tutte però con riferimenti culturali come Carry on up the Vicarage, tributo ad Agatha Christie con curiose vocalità , o Narnia (che non ha bisogno di sottolineature) in apertura, mentre una strepitosa Randy Crawford inaugura, con Hoping Love Will Last, la B side. Da segnalare la varietà chitarristica del nostro nell’altro strumentale Land of Thousand Autumns che sfocia senza interruzione nell’ultimo brano, la sognante, e sempre strumentale, title track ( che ai tempi fu addirittura rifiutata da Gabriel per essere inserita in un disco del gruppo).
Ancora, per rimanere agli ospiti importanti, e qui non mancano di certo: il batterista e il cantante dei Kansas, Phil Ehart oltre al collaboratore di Frank Zappa, Tom Fowler, ed al batterista dei dischi live dei Genesis, Chester Thompson e, dulcis in fundo, Graham Smith il violinista dei Van Der Graaf Generator. La grafica di molti dei primi dischi di Hackett, compreso questo e il precedente, il cui retro (foto 3) è stato riutilizzato anche per un recente cofanetto, la si deve alla moglie, la bella e bionda brasiliana Kim Poor, finchè è durato il matrimonio naturalmente.
Un’artista, la Poor, decisamente simbolista ed anche un po’ surrealista alla Odilon Redon più che alla Dalì per intenderci e difatti proprio la simbologia di questa copertina in cui si vedono due anziani signori in costume vittoriano assaliti da robot e giocattoli viventi verrà utilizzata dal regista Ridley Scott in una scena del suo celebre Blade Runner, protagonista Harrison Ford. Distante come grafica quindi dalle celebri copertine di Paul Whitehead per i Genesis ma ugualmente pseudo-prog anche se come composizione, per il contorno, la cornice che la poor ha messo alla scena, potrebbe essere addirittura di tipo country o almeno a me ricorda l’interno di Mad Dog & Englishmen del Joe Cocker live ’70. Stranamente le migliori cover della Poor sono a volte quelle in retrocopertina come in Highly Strung anche se ultimamente l’artista, proprio nel mese di ottobre 2016 a Londra, si è dedicata, ed era prevedibile, ad un certo misticismo angelico con la mostra The Shadow of Angels, argomento affrontato da sempre da miriadi di artisti.
(Foto 1)
(Foto 2)
(Foto 3)