Nicola Maria Spagnoli
Roma, venerdì 9 dicembre 2016 - Numerosi sono gli esempi, a volte felici a volte no, di commistione fra la musica sinfonica e quella moderna popolare o folk, jazz, rock o anche pop. Possiamo dire che storicamente uno dei primi sperimentatori fu proprio Gershwin a cui seguirono non pochi autori contemporanei. Nel Rock gli esempi poi non si contano fino a raggiungere il culmine con l’avvento del rock colto di quello che fu poi chiamato Ptogressive rock, dai Moody Blues ai Procol Harum, dai Pink Floyd ai Deep Purple, dai Camel ai Caravan ai Magma ai nostri Premiata Forneria Marconi al Banco del mutuo soccorso al Rovescio della Medaglia e non solo, fino ad arrivare alle odiorne contaminazioni di vituosi violoncellisti e violinisti o di cantanti pop come la recentissima Sinfonia di Mika.
Il jazz anche, con Ornette Coleman e Charlie Haden, ha fornito grandi e nobili esempi e naturalmente, infine, il genere fusion, quello fra rock e jazz. Questo disco della Mahavishnu Orchestra, e il nome non è a caso, creatura quinquennale dei primi settanta del grande John McLaughlin, certamente può annoverarsi fra i migliori esempi di quest’ultimo genere. Mc Laughlin, cresciuto alla corte di Miles Davis, dopo ottimi dischi solisti o con grandi jazzisti come John Surman, diede vita, con Billy Cobham alla batteria e Jan Hammer alle tastiere, a questa mistica, com’era il suo spirito, Orchestra che dopo due capolavori e un disco dal vivo e un momento di stasi, acquisì nuove linfe fra cui il navigato violino di Jean-Luc Ponty, direttamente dalle Mothers of Invention di Zappa, poi ancora Ralphe Armstrong, un valido giovane talento al basso, il batterista Narada Michael Walden (nomigliolo datogli dal guru Sri Chinmoy, patron morale del disco che trattiamo, nome adottivo che gli porterà molta fortuna nel futuro!) e Gayle Moran, moglie di Chick Corea, tastiere e voce. Ma l’asso nella manica, in questo disco, è rappresentato dalle orchestrazioni di Michael Gibbs, già noto al mondo del rock per Tanglewood 63 e il doppio Just Hahead, fantasiosa fusion jazz, dal conduttore Michael Tilson Thomas e dal produttore, un certo… George Martin di beatlessiana memoria.
Il disco inizia con una chitarra acustica che si unisce alla partitura classica facendo presagire tutt’altro genere di musica, genere che però viene completamente stravolto dal secondo brano in cui archi e ottoni alla Phillip Glass preludono ad un galoppante drumming che non può non ricordare la superba One world del capolavoro, sempre della Mahavishnu, Birds of Fire, la simbiosi fra classica e jazz e rock prosegue nel variegato brano Vision is a Naked Sword, nei giochi fra basso chitarra e batteria, nevrotici e mistici al contempo quasi ipertiroidei nel momento in cui entra il violino tirato al massimo per concludersi dopo circa quindici minuti in un bel mix chitarra/violino. Gayle Moran conduce con la sua eterea voce, direi molto simile a quella di Amy Stewart, Smile of The Beyond e qui siamo in pieno clima morriconiano sia per il climax che per gli arrangiamenti, un brano che comunque, nel complesso del disco, appare alquanto avulso per la mancanza assoluta di spirito rock, anche se piacevole e perfetto. In modo altrettanto romantico parte Wings of Karma con un’ampia introduzione orchestrale fra Mahler e Stravinsky, che peraltro ritorna a metà brano, per proseguire con quel crescendo tipico a cui McLaughlin ci aveva ampiamente abituati e in cui concede ampi spazi a Ponty anche se a volte è difficile distinguere fra i due strumenti.
Himn to Him infine, di quasi venti minuti, è una vera e propria suite contemporanea che però si può spezzettare in più brani, anche diversi fra di loro fra cui spiccano i minuti in cui si avvicina, fin troppo, al meeting con Santana di Love Devotion & Surrender. Il lavoro è complesso e stratificato, assimilabile solo dopo svariati ascolti e una lode va anche alla London Symphony Orchestra che funge da catalizzatore piuttosto che da protagonista e anche se il risultato finale sembra frutto di un’improvvisazione fra grandi talenti, esso è al contrario il risultato di una sapiente e meticolosa elaborazione, ben studiata e molto ben riuscita. Naturalmente anche la copertina colpisce e ben riproduce la spiritualità della musica con l’artwork di Ashok Chris Poisson (foto 1) su una foto ambientale, firmata Pranavananda, che lascia intuire la silhouette di un suonatore di flauto, quasi una divinità, sospeso su un limpido specchio d’acqua poiché appunto dal libro My flute di Chinmoy è tratto il poema Apocalypse. Ashok da My Goals Beyond in poi elaborò una manciata di album di Mahavinshu (ovvero John McLaughlin!) fra cui il vendutissimo Birds of Fire che dicevamo e il meno fortunato Visions of the Emerald Beyond dove, in copertina naturalmente, ugualmente troviamo paesaggi new age così come nella parte inferiore dell’uomo-spettro di questa copertina.
In questa i colori si ispirano quindi, evidentemente, allo spettro elettromagnetico, quelli della parte superiore della figura, colori usati anche di recente dal nostro Battiato in Apriti Sesamo ugualmente attraversato da innata spiritualità. In gruppi più indianeggianti dell’epoca, come i Quintessence, già nel 1969 trovavamo direttamente in copertina, tout court, divinità orientali ma anche figure di ispirazione cristiana come, sempre dei Quintessence, nell’omonimo secondo lavoro. A dire il vero questa volante ed aerea figura ci sembra, come soggetto, ispirarsi addirittura alla celebre Nascita di Venere del Botticelli, naturalmente adattata al gusto mistico dei nostri musicisti e qui è doveroso citare, per il gusto mistico ed orientaleggiante, le non poche copertine di un altro indianista del versante pop, il pacifico beatle George Harrison.
Nicola M. Spagnoli