Antonio Del Vecchio

Rignano Garganico, sabato 26 novembre 2022 -  Quello del pollo ripieno è un ricordo che mi sta molto a cuore, tant’è che ancor oggi ne avverto l’acquolina in bocca del suo antico odore e sapore. Lo è di più se accordo tutto questo al mio primo viaggio in treno alla volta del probandato benedettino di Montenero (Livorno), che mi vedrà ospite per due anni e passa. Siamo sul fine estate del 1954. Sono stato promosso con il massimo dei voti alla II classe della Scuola di Avviamento Professionale di tipo agrario, operante a San Marco in Lamis. 

La vocazione di farmi prete, repressa l’anno precedente per colpa di San Luigi, che aveva scosso la testa in segno di diniego alla mia preghiera di partire assieme al mio compagno Gabriele (oggi rinomato frate francescano minoritico), è riapparsa di nuovo nella mia anima in pena. In pena, perché della comitiva di chierichetti che servivamo la S. Messa e le restanti funzioni religiose alla Chiesa del Purgatorio, ne erano rimasti ben pochi. Gli altri erano quasi tutti partiti chi per il seminario di Manfredonia, chi presso gli oratori Salesiani, altri ancora presso i Francescani.

La solitudine che provavo era alle stelle. Né mi consolavano i successi scolastici. Anche perché mio padre mi preavvisò: “… dopo la scuola, trovati un mestiere, perché noi non abbiamo soldi sufficienti per farti studiare”. Non ricordo chi, ma qualcuno mi suggerì, anzi suggerirono ai miei genitori: “…perché non ne parlate con Don Bruno, il benedettino di Montenero? Là si studia bene e soprattutto si paga poco”.

Il nostro ‘don’ , come gli altri anni, da qualche giorno era già in vacanza in paese. Ci fissarono un appuntamento e in un pomeriggio inoltrato io e mia madre ci presentammo a casa sua, quella ubicata in Corso Giannone. Don Bruno ci accolse con molto calore e rivolto a me, disse: “ Sicché ti vuoi fare monaco? So che a scuola vai bene e la mia risposta è affermativa. Con la tua scelta farai contenti non solo i miei Superiori, ma soprattutto me, che amo profondamente il mio paese e i suoi buoni abitanti. “Partirai – aggiunse – con mio nipote Michele, che ha concluso gli studi medi e ginnasiali ed è prossimo ad andare a Vallombrosa”. 

Le sue parole penetrarono nel mio cuore come nettare e in un baleno la mia malinconia sparì, sostituita da una gioia immensa che pervase tutto il mio essere. E il sorriso, ormai cancellato da oltre un anno, tornò di nuovo a farsi vedere sul mio viso, illuminandolo e rendendo spedito il mio parlare. Gli baciai subito la mano e lo abbracciai come se fosse mio padre. Mia madre, dal canto suo, rimasta un po’ in disparte in segno di rispetto e di riverenza, riprese pure lei a parlare e a ringraziare il padrone di casa a più non posso.

Nei giorni successivi a casa riprese il viavai di una volta di nonne, zie e zii, e parenti sino alla settima generazione. Tutti a complimentarsi per la scelta fatta e con la richiesta di raccomandazioni materiali e spirituali, come se fossi già prete. Non mancava il vicinato, che un tempo, ti era una seconda famiglia affettiva. Per cui non si poteva nascondere nulla di tutto ciò che bolliva o poteva bollire in pentola. Tutti erano qui pronti a consigliarti i pro e i no.

E ciò, nonostante ci volesse ancora un altro mese. La partenza era prevista, infatti, per metà settembre. Mia nonna materna assicurò mia madre che l’onere del ricovero (mille lire al mese, pare) se lo sarebbe caricato lei, togliendo l’importo dalla sua pensione di guerra, percepita per la morte di mio zio nel secondo conflitto mondiale. In più al momento opportuno avrebbe contribuito all’acquisto dell’abito della vestizione. 

La nonna paterna non fu dammeno e promise anche lei, vedova di guerra per la morte di mio nonno avvenuta nel primo grande conflitto, di sopportare qualsiasi altra spesa extra, eventualmente capitata durante la mia vita collegiale.

Mia madre, dal canto suo, riprese la messa a punto del corredo, integrando quello dell’anno precedente e facendo ricamare la sigla di nome e cognome su ogni pezzo dalle mie brave zie ricamatrici. Alla vigilia si provvide pure alla scorta – viveri.

Trovandomi con un ospite di riguardo, si tralasciò il solito “pane e mortadella”, che ci accomunava durante i viaggi un po’ tutti, noi della povera gente, e ci si ingegnò a preparare qualcosa di meglio, anzi di lusso: il pollo ripieno, quello che solitamente si mangiava soltanto nelle feste comandate, come al ferragosto, in questo caso al sugo.

Mio padre che lavorava a tempo fisso come muratore presso l’azienda agricola dei “Cavalli”, sulla pedemontana, non si accontentò di prendere il “chichirichì” dalla gabbia di casa, come avrebbe voluto mia madre sospinta da ragioni di risparmio, ma dal branco dei ruspanti, allevati a cielo aperto dal padrone, rimettendoci una bella sommetta. Ne fu felice, quando lo portò a casa e lo sottopose alla giustizia di mia madre, che in quattro e quattro otto lo ammazzò, mettendo da parte il sangue che servì a procurare a me che ne ero ghiotto una cena con i fiocchi, e lo spennò a dovere, dopo averlo immerso più volte nell’acqua bollente. 

A parte si provvide a pulire le interiora. Io, mia sorella e i fratellini, seguimmo le operazioni con gli occhi sgranati. L’unico a stare fuori dalla scena fu mio padre, che sin da piccolo non aveva mai digerito di vedere l’uccisione voluta di qualche animale. Era, come si dice in gergo, un po’ “vile” nei confronti del versamento di sangue altrui. Non cambiò atteggiamento neppure durante e dopo la guerra, nonostante ne avesse visto e patito di cotte e di crude in termini di morti e ferimenti.

Mia zia Rachelina, quella esperta che aveva imparato bene la ricetta sul tema presso le cucine dei ricchi del posto, non se lo fece dire due volte e preparò a parte il ripieno con passione e osservando a puntino tutte le regole del caso. Quindi, si mise il tutto a riposare in una cesta di vimini ben coperta.

La mattina successiva si finì il lavoro, riempiendo con il preparato, ben condito, il corpo dell’animale “spogliato”. E, dopo averlo cucito a dovere per non fare uscire il suo contenuto, all’ora giusta si provvide a farlo rosolare al forno di Via Portagrande, dove a tenere a giusta misura l’ambiente ci pensava “scella Antonia”, una abbreviazione di “suscella”, ossia di sorella maggiore, quella che nelle famiglie numerose funzionava come una seconda madre.

La signora Antonia era una brava fornaia empatica e benvoluta da tutti, che provvide alla giusta cottura, sotto il controllo assiduo di nonna Chela che abitava di fronte. Dopo un tempo discreto, ne venne fuori un rosolato dal colore biondo lucido, cotto al punto giusto e soprattutto odoroso e sapido da farti leccare le labbra anche a digiuno. Una volta a casa fu fatto raffreddare al punto giusto e poi avvolto in un capiente foglio di carta oleata, comprata all’emporio di Giacinto, in piazza.

In attesa della partenza, il pollo in parola fu messo nella borsa di tela, assieme a due fette di pane fresco e alle bottiglie a serratura ermetica piene di acqua, che, unitamente alle valigette, costituivano i nostri unici bagagli. La corriera Sita arrivò di lì a poco tempo in Largo Portagrande e ci prese a bordo entrambi, diretta, via San Marco in Lamis, alla stazione ferroviaria di Foggia.

Qui, dopo alcune ore di attesa, salimmo sul treno per Roma, sistemandoci in uno scompartimento da sei posti del vagone di II classe, occupato da due passeggeri ben messi. Si trattava del direttissimo via Caserta, ma che, con la velocità ridotta e le sue continue fermate, sembrava un accelerato. Impiegammo cinque ore e passa. 

Il viaggio in complesso fu tranquillo. Ci mettemmo a conversare del più e del meno con i due passeggeri ospiti, entrambi foggiani sino alla cima dei capelli. Lo erano nel dialetto, in parte italianizzato, e nel modo di pensare e di fare. Di tanto in tanto, il nostro sguardo si posava sulla borsa del pollo, sollecitati in parte dall’appetito dell’età e per il resto dall’odorino che si avvertiva ad ogni scossa del mezzo.

Uno di fronte l’altro, noi ci guardavamo con sornione complicità e rimandavamo il godimento alla prima occasione opportuna e senza condividerne con chicchessia il pensiero e soprattutto l’azione. Obiettivo che, almeno fino alla Capitale, salterà, per via dei due passeggeri presenti che dai discorsi che si facevano sembravano più affamati di noi. Ad un certo punto, perduta ogni speranza per la consumazione ghiotta ed esaurita la nostra conversazione, zittimmo.

I nostri dirimpettai, dal canto loro, sprofondarono addirittura nel sonno, costringendoci a seguirli con la coda degli occhi per diverso tempo. Passarono le ore e nel vagone tutto si avvertiva: qualche passo felpato diretto al bagno, qualche sbadiglio abbozzato e subito soffocato dalla subitanea ripresa del sonno. A favorire, tuttavia, lo strano sottofondo musicale, contribuiva in larga misura il monotono stridio delle ruote sui binari, che ti assordavano e nel contempo ti assorbivano.

Fummo svegliati solo dal leggero chiarore dell’imminente alba e dal trambusto e viavai dei treni che si avvertiva nei pressi della stazione di arrivo, ossia Termini.

Nel giro di pochi minuti gli occupanti si svegliarono tutti e, presa la loro roba, si misero, chi già in corridoio e chi in cabina, in vigile attesa della fermata e della discesa dal mezzo ferroviario. Al coro ci unimmo anche noi, con le valigette e la famosa borsa del pollo. Passarono altri minuti ancora ed entrati in stazione ci mettemmo anche noi in fila nel corridoio fino alla fermata definitiva.

Dopo di che scendemmo e, consultato il pannello degli orari, scoprimmo che da lì a due ore il nostro treno per Livorno sarebbe spuntato sull’apposito binario assegnato per accoglierci e partire per la destinazione.

In un primo momento, sollecitati dal languorino mattutino, pensammo di metterlo a tacere da subito non con il solito caffè che, peraltro, a me non piaceva, ma abbordando da subito il pollo, dopo esserci accomodati su qualche panchina vicina. Ci mettemmo alla ricerca di una libera, tutta per noi, e, possibilmente, lungo il binario del nostro prossimo treno. Erano incredibilmente tutte occupate da una o più persone. Così il tempo passò inutilmente e rimandammo ancora una volta il nostro agognato pranzo a base di pollo ad altra ora. 

Verso le cinque e trenta il treno fu pronto al nostro binario. Ci salimmo sopra e cercammo uno scompartimento adatto alle nostre esigenze. Ne scoprimmo uno che aveva appena due posti occupati. Ci sistemammo e sedemmo l’uno di fronte all’altro, come in precedenza, ossia vicino ai finestrini, dove c’era il tavolo mobile per il nostro recondito scopo.

Più in là, apprendemmo che gli altri due ospiti sarebbero scesi a Civitavecchia. “Se non sale nessuno, – confidò Michele ad Antonio in un lapidario colloquio di corridoio – sicuramente potremmo mangiare tra un’ora”. Così accadde.

Attesero il riavvio del treno e in quattro e quattro otto, dopo aver predisposto la tavola, ci misero sopra l’involucro con il pollo, aperto il quale, ne gustarono dapprima l’odore e poi passarono all’assalto , strappando ognuno l’ala spettante, consumata lentamente nel giro di qualche minuto. Poi passarono ai cosciotti, che fecero la stessa fine.

Michele, afferrò, poi, con mano lesta un coltello a serramanico che aveva sempre con sé e aprì dolcemente il ventre dell’animale. Preso, poi, il contenuto e lo spalmò sulle due fette di pane a disposizione. Anche questo fu consumato a poco a poco dai due improvvisati commensali. Lo facevano per gustare meglio le frattaglie, assieme alla carne mista a polpetta.

Dopo di ché si passò alla divisione finale, ossia a tagliare il pollo a metà e a mangiare ciascuno la propria parte. Il tutto intervallato da lunghe sorsate d’acqua, presa dalle rispettive bottiglie. Insomma, mezz’ora dopo, del pollo non c’era neppure l’ombra, ma solo lunghi e sonori rutti liberatori. “Un pranzo simile, -confidò Michele– nonostante la ‘crascia’ (abbondanza) in casa, non ne ho mai mangiato!”. Ne convenni pure io, né prima, né dopo. Da qui il ricordo inestinguibile e l’accostamento ai sapori antichi.

A questo punto, il mio accompagnatore, prendendomi il braccio e guardandomi con serietà fisso negli occhi, mi disse: “ Antò, mi raccomando, di questo non farne parola mai a nessuno, perché il mondo è pieno di invidiosi, che sono pronti sempre a criticare gli altri”. Arrivammo alla Stazione centrale un’ora dopo. Prendemmo un taxi che ci portò fino al capolinea della funicolare. Nell’attraversare il lungo mare dell’Ardenza, il tassista ci fece notare sulla nostra destra l’esistenza di un’articolato ed elegante complesso di fabbricati. Era l’Accademia Navale della Marina Militare Italiana, l’orgoglio massimo della città. Struttura, quest’ultima, che assieme alla nave-scuola “Amerigo Vespucci”, al Faro della Meloria e all’isola di Gorgona (carcere) dominerà i nostri pensieri e la fantasia per l’intero nostro soggiorno collegiale, costituendo essa la vista panoramica per antonomasia che si scorgeva e si godeva in ogni momento dall’alto del nostro loggiato residenziale.

L’altro episodio che mi colpì fu il viaggio in funicolare. Avevo una paura addosso, perché temevo che l’automezzo potesse sradicarsi da un momento all’altro dalla propria sede e cadere giù a precipizio all’indietro.

Scendemmo pochi minuti dopo sulla sommità e raggiungemmo in un baleno la piazza e l’ingresso, dove un monaco laico ci prese in consegna e ci accompagnò sopra al Collegio. Qui, ci accolse con misurato gaudio il padre maestro Don Giuseppe Zambernardi. Tra me e lui fu empatia a prima vista.

Il religioso, dopo aver salutato Michele, si rivolse a me dicendomi: “Ah sei tu il ragazzo bravo a scuola, raccomandatomi da Don Bruno! Sono contento di averti in casa. Qui apprenderai da me e dagli altri insegnanti, oltre ai concetti evangelici e al buon comportamento dettati dalla dottrina cristiana, soprattutto le normali materie del sapere che accresceranno la tua cultura complessiva”. Don Giuseppe ci chiese, poi, : “avete fame, vi faccio preparare qualcosa?”. 

Io e Michele ci guardammo in silenzio, ma fu poi lui a rispondere: “Grazie, abbiamo già mangiato durante il viaggio mezza pagnotta di pane e mortadella. Ci sentiamo sazi e possiamo attendere senza problemi la cena”. Ci siamo guardati negli occhi e in cuor nostro abbiamo ironicamente sorriso. Intanto, le parole di apprezzamento e stimolo rivoltemi poc’anzi da Don Giuseppe hanno fruttato subito, accrescendo in me l’interesse e la voglia di sapere sempre di più. Tanto che nel giro di pochi mesi diventai il primo della classe in Italiano e tirato in ballo in ogni momento da lui come esempio-modello per i miei compagni di classe e addirittura come un fenomeno all’esterno.

Pensate che una volta, sviluppai nel giro di poco tempo un tema su interrogativo banale lungo una ventina di pagine degli antichi quaderni scolastici.

Altrettanto, risultavo primo nelle materie di don Bruno. Da subito fui affidato alle cure del decano Mario Iannacci, mio compaesano e futuro padrino di cresima. Persona molto affabile che mi starà sempre affianco durante tutta la mia permanenza collegiale con i suoi navigati consigli e il suo affetto. Lo stesso mi fece conoscere il posto letto in camerata e quello della sala studio e mi aiutò a sistemare la roba nell’armadietto. Nel giro di qualche giorno imparai tutto ed entrai nell’organico del dire e del fare del “probandato”.

Qualche anno dopo di me, anche il mio accompagnatore Michele abbandonò Vallombrosa e tornò in paese. Qui continuammo ad essere amici, nonostante la differenza di età e la classe di studi. Era sempre in mezzo a noi, tanto che, ad un certo punto, per via del suo tifo pro-Fiorentina, nato durante la sua vita collegiale e la sua ultra ammirazione per il cannoniere della squadra, lo soprannominammo “Montuori“. Nomignolo benevolo che lui accettò e se lo portò dietro sino alla fine dei suoi giorni in quel di Torino, dove aveva vissuto e lavorato presso uno studio notarile.

Ci vedevamo in quasi tutte le vacanze estive e ad ogni incontro egli mi salutava puntualmente, con il suo sorriso sornione e pieno di umanità.

Ricordo sempre una comica scena ispirata a “Eri piccola, piccola così…”, la canzone di successo di Fred Buscaglione, quando, l’altro caro amico che non c’è più, Francesco, futuro docente di Lettere Classiche al Liceo, passeggiando sul Viale, scherzando sul fisico robusto ed imponente di lui, gli ‘cantò’ scherzosamente “al maschile”: “vieni, piccolo…”, seppure consapevole che il vero piccolo di statura e di corporatura era lui. Così vanno le cose del mondo!