Antonio Del Vecchio
Rignano Garganico, martedì 8 novembre 2022 - Quando si dice che negli ambienti ecclesiastici che contano si mangia bene, si sbaglia di grosso, anzi qualche volta si fa parca. Ed è quanto mi, anzi, ci capitò al Monastero dei Benedettini Vallombrosani di Santa Prassede a Roma (vedi foto di copertina), durante il mio viaggio di rientro definitivo dal collegio di Montenero (Livorno).
Venne a prelevarmi un mio cugino acquisito, zio Pietro che mi poteva essere quasi padre in termini di età, come pure la moglie Maria, di qualche anno in meno di mia madre. Era costui un viaggiatore nato e conoscitore del mondo, in quanto comunista acculturato di quelli alla Di Vittorio, a quei tempi nemici della Chiesa. Lo erano, perché gli stessi erano sostenitori tout court del regime sovietico, lo stato-regime dove addirittura si mangiavamo persino i bambini, specie se cristiani, pur di affermare le loro idee. Si propagandava…!
A quei tempi i treni erano meno veloci e le linee ridotte, come pure le corse. Per cui per arrivare a Foggia bisognava necessariamente sostare per alcune ore a Roma, per poi riprendere all’ora designata il cammino interrotto. Per facilitarci il soggiorno, l’Abate, telefonò al suo pari grado al Monastero di Santa Prassede nella Capitale, al fine di ospitarci a dovere, in attesa dell’ora del treno per il Sud, il nostro caro Sud. Non appena avviati, il primo pensiero ad esprimere zio Pietro fu quello relativo alla futura cena.
All’uopo, mi sondò: “Si mangia bene? “. Gli risposi di sì ed elencavo tutti i piatti che venivano serviti solitamente: pasta asciutta e carne, formaggi a scelta, frutta e vino a sufficienza. Il mio interlocutore, seguendo con viva attenzione il racconto, si leccava i baffi, perché al Sud il pranzo era un piatto solo, normalmente il pancotto, la verdura di prato, ceci o fagioli e la domenica maccheroni di casa e qualche volta le orecchiette. Il vino si beveva solo la domenica e nelle restanti festività. Nel primo pomeriggio approdammo alla Stazione Termini.
Il primo pensiero di mio zio fu l’acquisto all’edicola ambulante di Paese Sera, pure di sinistra, al posto dell’Unità, difficile da reperire, perché prettamente di partito. Lo sbirciò, lesse di un fiato l’editoriale di Togliatti, concludendo con il suo solito dire “Maledetti capitalisti!”. Appresso non avevamo niente, se non la valigetta con i miei indumenti. Perciò optammo di andare a piedi verso la destinazione prescelta. Erano appena le 16.00, il treno per Foggia era alle 23. 30. Dopo aver perso tempo a guardare vetrine o a curiosare su questo o quel palazzo o monumento, arrivammo a Santa Prassede alle 17,00 in punto. Alle 19.00 era fissata la cena.
Pertanto, dopo aver parlato per un pezzo con i confratelli ospitanti, ci intrattenemmo a lungo nella chiesa, con la scusa di recitare preghiere, ma in effetti per ammazzare il tempo, in attesa dell’agognata cena, specie da parte di mio zio, ma anche da me che ero giovanissimo ed avevo bisogno di mettere carne addosso. Finalmente arrivò l’ora, l’abate ci ricevette nel capiente refettorio, dove erano già seduti dall’una all’altra parte del tavolo centrale gli altri religiosi.
Noi ci sistemammo sulla sponda destra, quella riservata agli ospiti e dopo la usuale preghiera di rito e il “Benedicite” cantato, arrivò in sala il laico servitore con il vassoio della minestra tra le mani e cominciando dal capo religioso, fece scendere uno o due mestoli di pasta al brodo in ciascun piatto. Mio zio, ne accettò uno solo e la sua delusione la si leggeva in faccia. A casa nostra la brodaglia si dava solo agli ammalati. Quindi, dopo il brodo, egli si intrattenne a sbocconcellare il panino. Questo sì che gli piaceva! Non era come il pane duro di casa. Io gli strinsi il braccio invitandolo a restare calmo. Poi fu portato a tavola, non la carne arrosto, ma alcune fette di frittata di uova, accompagnata da zucchine a pezzetti. Il mio compagno di tavolo dimostrò ancora una volta con una smorfia la sua visibile delusione e divorò tutto, convinto più dalla fame che dal piacere.
Come frutta ci servirono due noci e una manciata di castagne secche, con ogni probabilità della Garfagnana, conservate a sacchi da quella Congregazione, che le adoperava anche per confezionare il tipico dolce, detto “Castagnaccio”, che tanto piaceva a noi collegiali di Montenero. Era confezionato dalle abili mani delle Suore del Sacro Cuore, nostre apprezzate cuciniere e rammendatrici dei nostri poveri e casti abiti di collegiali. Consumata la cena e salutato i nostri ospiti, tornammo alla stazione con lo stesso mezzo naturale. Durante il percorso, mio zio si sfogò, maledicendo la serata e pontificando “Meglio essere comunisti e mangiare pane duro, che essere frati mosci!”, mentre io giustificavo il tutto, dicendo che era Venerdì, giorno di penitenza.
Quindi, niente pranzi sontuosi, niente carne. Questa era regola infrangibile per i cristiani e soprattutto per i religiosi, come i Vallombrosani, fermi più degli altri ad osservare appuntino la regola de “l’Ora et labora” di San Benedetto prima e di San Giovanni Gualberto dopo. Da allora non parlammo più di questo argomento, forse per non riprovare l’amaro in bocca di quel giorno sfortunato per i nostri palati!
Un altro episodio simile si ripresentò qualche anno dopo, quando. licenziato alle medie da privatista, frequentavo con entusiasmo la IV ginnasio, a San Marco in Lamis. I miei compagni di classe preferiti erano Alberto e Primiano. Un giorno Alberto ci disse: “Sabato prossimo venite a pranzo da me a Stignano, mio zio è fuori!”. Era un lunedì di ottobre. Noi acconsentimmo subito e ci convincemmo anche di marinare la scuola.
E ciò per rendere più gradito l’evento. E questo non a torto, perché il mezzo e il luogo ci permettevano di girare un po’ nei dintorni con la jepp e poi a piedi nel vasto giardino del Convento, impegnati a rincorrerci, a salire sugli alberi e a mangiare qualche frutto di stagione o a tirare qualche calcio a pallone nell’ampio cortile antistante, quello sgombro da materiale edile, che serviva alla ricostruzione dello stabile. Allora Convento e dintorni erano tutto un cantiere.
In quei tempi di magra, l’invito di Alberto fu ben accolto all’istante, perché lo stesso ci solleticava assai l’appetito e la fantasia. Ci aspettavamo, infatti, un pranzo luculliano, con abbondante pasta asciutta, preferibilmente fatta con i ziti, quelli che si rompevano a piacimento, condito con sugo ristretto di braciole di vitello o di galluccio ruspante, semmai anticipato da un antipasto succulento con salsicce e caciocavallo tagliato a spicchi di origine nostrana, stagionati a dovere. Come secondo piatto, ci si aspettava il resto della carne al sugo, qualche pezzo di agnello arrosto, accompagnato semmai (non tanto ci andava a genio) da insalata di orto, che qui, come pure nelle altre restanti strutture francescane, si perdeva e disperdeva a vista d’occhio. Non a caso erano gli stessi frati a coltivarla, lavorando sodo nel segno della regola o ricorrendo a qualche fratello laico, come nel nostro caso.
Veniva, poi, servito frutta a volontà di stagione, noci e castagne arrosto. All’ora stabilita, ci chiamò Fra Luigi, gridando a squarciagola: “Venite…e, venite…e, il pranzo è prontoo!”Accorremmo subito con l’acquolina in bocca e la fame a ginocchia. Arrivammo al portone trafelati. Ci fermammo un po’ per prendere fiato. Quindi, preceduti dal nostro Alberto, ci spingemmo dentro. Al di là della cucina c’era un tavolo lungo e grande, ben coperto da una tovaglia di colore e corredato di sedie massicce, forse di noce, dato il colore, o di castagno stagionato.
Sul tavolo c’era un grande contenitore di creta , che noi chiamiamo solitamente “skafaréje” coperto da tovaglia. Di rimpetto alle sedie s’intravedevano grosse fette di pane lunghe quanto una tavola da forno, un bicchiere di vetro e un coltello. C’erano ancora in vista delle caraffe di stagno piene d’acqua e nel mezzo del tavolo una grossa pagnotta (skanàte) di pane. Infine, ci fu servito come contenitore una scodella – piatto per ognuno. In tutto eravamo una decina, tra i quali c’era l’immancabile Primiano.
Il frate cercante, dopo la preghiera di rito, ci invitò ad iniziare, augurandoci: “Buon appetito!”. Riempimmo fino all’orlo il piatto d’insalata e con il pane da una parte e la forchetta dall’altra nel giro di pochi minuti, dopo una lunga sorsata d’acqua, terminammo, anche perché di quanto avevamo sognato non c’era neppure un barlume. “Siete sazi? – ci disse – Si, grazie! – rispondemmo in coro al nostro improvvisato servitore e, temendo che ci servisse un altro piattone d’insalata, quasi che fossimo pecore da latte, uscimmo fuori e prendemmo posto sull’automezzo.
Ovviamente con noi c’era Alberto che ci accompagnò fino a Rignano, giustificando che quanto accaduto era dipeso tutto dall’assenza dello zio. Se fosse stato presente lui, le leccornie erano assicurate. Non a caso in seguito, Padre Gerardo, per via dei pranzi ricchi di ogni ben di Dio e di torte a volontà, si ammalò di diabete /2 e visse per molti anni cieco fino a quando la morte non lo rapì in cielo.