Antonio Del Vecchio
Rignano Garganico, venerdì 14 ottobre 2022 - Anche Rignano Garganico, il più piccolo Comune del Parco Nazionale del Gargano, sarà presente idealmente, o meglio con lo scritto che segue, al Convegno storico di ampio respiro su “Gli anni del Fascismo in Capitanata”, in programma, il 14 e 15 ottobre prossimi, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia.
Vi parteciperanno 30 relatori (Marcello Ariano, Francesco Barbano, Adriano buzzanca, Giuseppe Clemente, Gloria Chiara Ciuffreda, Vito Cristino, Mauurizio de Tullio, Assunta Facchini, Michele Ferri, Mario Freda, Michele Galante, Francesco Giuliani, Raffaele Letterio, Vito A. Liuzzi, Luigi Masella, Giuliana Massimo, Massimiliano Monaco, Maria Nardella, Ciro panzone, Donato Pasculli, Lorenzo Pellegrino, Stefano Picciaredda, Gianfranco Piemontese, Teresa Maria Rauzino, Agostino Ruscillo, Vito Saracino, Giovanni Sardaro, Gaetano Schiraldi, Giuseppe Trincucci, Pasquale Zicca). Ecco lo scritto in parola, intitolato in questo caso “Rignano Garganico tra Fascismo e II Guerra Mondiale”.
La Guerra
Le storie dei rispettivi soldati rignanesi e non impegnati sui vari fronti di guerra della II Guerra Mondiale sono contenute nel v. “Io parto non so se ritorno / Storie di Caduti e Reduci della II Guerra Mondiale”di Antonio Del Vecchio, edito nel 2014 dal Circolo Culturale“Giulio Ricci” del posto.
Di esso è prossima ad andare in stampa anche la II edizione riveduta, corretta ed ampliata di ulteriori 100 pagine, con altre e significative storie di militari, di cui alcuni si salvarono, grazie all’inserimento e militanza nei gruppi partigiani e di altri sgambati alla morte certa nei lager tedeschi o all’arrivo ed intervento fortunoso delle truppe alleate, dopo l’armistizio del settembre del ‘43.
Tra l’altro, c’è la storia di Pietro Puleio (deceduto in provincia di Salerno due anni fa quasi centenario), ex poliziotto, partigiano durante la guerra e testimone veritiero dell’affondamento della nave Sinfra e del quasi intero carico umano a Creta.
Il resoconto del libro ha permesso, inoltre, all’autore di stendere con precisione storica l’elenco dei Caduti ora affisso sul perfezionato Monumento realizzato ex novo a cura dell’Ente locale in Piazza San Rocco, con il salvataggio delle sculture marmoree realizzate negli anni ‘60 dallo scultore Giovanni Postiglione (classe 1900, fratello di Salvatore, docente e famoso scultore che operò a Foggia, tramandandoci tante opere d’arte) a San Severo, dove fu attivo anche il fratello minore Mario, docente d’arte e scultore pure lui.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 e lo sbarco degli anglo – americani in Sicilia, i tedeschi si ritirano man mano dal Sud Italia per rafforzare la cosiddetta linea gotica. Sono a corto di viveri e di rifornimenti. Pertanto, risalendo lo Stivale (talvolta come veri e propri sbandati), lasciano là, dove passano le loro orme malefiche in termini di ruberie per l’approvvigionamento.
Prendono tutto a danno delle popolazioni già stremate per l’assenza di forti braccia da qualche tempo impiegate sui fronti di guerra. La popolazione rimasta (anziani, donne e bambini) fanno fatica a curare i campi e gli allevamenti. C’è, soprattutto, tanta paura a causa dei bombardamenti ripetuti da parte delle forze alleate. Quel poco che riescono a produrre e a stipare momentaneamente viene ben nascosto in fosse sapientemente occultate o nei nascondigli murati delle case.
La “riserva”, oculatamente amministrata, a mala pena riesce a soddisfare quotidianamente la famiglia. Sono i nonni o le mamme a gestire i generi di prima necessità come la farina, i legumi e le altre graminacee. A sopperire il bisogno di proteine ci sono le galline, cresciute nella gabbiola posta accanto all’uscio di casa, e qualche altro animale domestico di piccola taglia (pecora, capra o maiale), spesso tenuto in casa per timore di furto. Tale era la situazione a Rignano.
Il salvataggio dei ragazzi
“Un certo giorno i tedeschi arrivarono anche qui!” (Rignano)-racconta V.C. Nel primo pomeriggio furono avvistati al Talafone, antica stazione semaforica posta sulla rotabile per San Marco in Lamis. Erano in due! Scesi dalle rispettive moto, stavano bivaccando sul ciglio della strada e non si sapeva il perché. Forse uno dei due mezzi era guasto o sostavano per riflettere circa il da farsi.
Non visto, li aveva scorti un contadino che coltivava lì da presso un fondo. L’uomo, impaurito, aveva abbandonato i suoi attrezzi di lavoro e attraverso scorciatoie a lui note aveva raggiunto in pochi minuti le prime case del paese per raccontare la “nuova”. In un baleno la notizia raggiunse ogni angolo di Rignano.
Allora le “camicie nere” locali e le altre autorità si misero d’accordo sul modo e sul come evitare alla popolazione eventuali violenze da parte dei militari tedeschi. Lo zio Giuseppe ricevette l’incarico di tutelare i ragazzi e subito li radunò tutti in Largo Piscine (ora Via Manzoni).
Qui c’era una cisterna vuota piuttosto spaziosa e profonda circa cinque metri. Ma come si fa a scendere? Aiutato da altri, da un ponteggio posto nelle vicinanze sfilò un lungo e robusto tavolone, largo una cinquantina di cm. Quindi inchiodò trasversalmente tante altre piccole tavole fino a formare rudimentali scalini. Poi calò l’aggeggio nell’ipogeo.
La rudimentale scala si rivelò adatta all’uopo. Con l’aiuto di una fune i piccoli presero a scendere, ad uno ad uno. Per ultimi si calarono pure Vincenzo. e il nostro Leonardo. Ma giù non c’era più posto! Restarono, allora, aggrappati alla scala. Vincenzo, sistemato più in alto, di tanto in tanto alzava il legno posto a coperchio per sbirciare fuori e capire quello che stava accadendo.
Arrivarono i tedeschi, salutarono le “camicie nere”, uniche persone accorse ad accoglierli. La popolazione si era dileguata. A Rignano regnava sovrano il silenzio, interrotto di tanto in tanto dai latrati di un cane.
I soldati, dopo un innocuo giro per le vie del paese ed una breve sosta sulla ripa, forse perché colpiti dallo straordinario panorama ripresero a percorrere la renosa strada che menava a San Marco.
Dopo di questa, non si sono avute altre sgradite visite a Rignano. I ragazzi uscirono ordinatamente dalla cisterna. Vincenzo e Leonardo si strinsero fortemente allo zio Giuseppe, contenti e felici di avere un congiunto così coraggioso e in gamba. Senza il suo decisivo apporto forse la “cosa” poteva prendere altra piega! .
L’Edificio scolastico “Padre Antonio Fania”
Ed ora ecco un po’ di storia sull’antico edificio in questione. In passato le aule scolastiche erano disperse in tutto il centro storico. Solo nel 1934 si pensò di raggrupparle in un unico plesso, allorché fu indetto il primo concorso per al costruzione di un edificio con annessa palestra. Su progetto di Fazio e direzione di De Nittis, i lavori furono appaltati nello stesso anno alla ditta Di Iaso di Monte Sant’Angelo.
La posa della pietra avvenne in pompa magna a fine dicembre, con la partecipazione delle massime autorità religiose, militari e civili della provincia (c’è una foto, un tempo bene esposta nella locale sezione dei Combattenti). Lo stabile, una volta terminato, venne inaugurato con il medesimo clamore mediatico nel 1939.
Di seguito il ricordo di Giovanna (classe 1932) al momento del trasferimento iscritta alla terza elementare*. “… I primi due anni, in classe mista, li abbiamo trascorsi, stipati come sardine, nei locali contigui al vecchio Municipio. L’ingresso era, però, a Vico Giano. Dal 1939 in poi siamo andati al nuovo edificio di Largo Portagrande.
“Ricordo bene il giorno dell’inaugurazione avvenuta poco prima dell’inizio dell’anno scolastico. Un avvenimento veramente memorabile. C’erano proprio tutti: le autorità civili, militari e religiose; le alte gerarchie fasciste locali e provinciali; le maestranze e l’intero popolo in giubilo, gente di ogni rango e di ogni età.
E poi … bandiere e stendardi inalberati dai giovanissimi Balilla in divisa, dalle Giovani Italiane e dagli Avanguardisti. Ragazze e ragazzi si sono poi esibiti in marce, giochi ginnici e altri saggi preparati a puntino dai loro insegnanti ed istruttori. Il tutto veniva sottolineato di tanto in tanto dalla tipica battuta di tacchi seguita dal saluto fascista e dalla tiritera “Evviva il Duce, Evviva il re!” Tra questi c’eraanche il futuro salesiano (Leonardo), in tenuta da caposquadra Balilla…”
Leonardo frequenta le cinque classi delle Scuole Elementari dal 1938 al 1942. Fino alla Terza ha come insegnante “donn’Antunètte”. Antonietta Del Priore (1878 – 1947) è la vedova del noto e filantropico podestà Antonio Cappelli, maestro anche lui e poi direttore didattico, nonché autore del primo libro di storia su Rignano, pubblicata dal figlio Francesco, nel 1999.
Nel corso delle ultime due classi, invece, Leonardo è sotto l’accorta guida di Angela Padovano (1902 – 1976), moglie di Antonio Martelli, attivo segretario della Democrazia Cristiana negli anni 1960 – 1970.
Giovanna , compagna di scuola del nostro personaggio, parla con foga e nostalgia di questo periodo. “Sin dalla prima classe –continua – Leo si rivela un ragazzo d’intelligenza superiore. E’ il più bravo di tutti e assolve con impegno la sua carica di capoclasse. Gli insegnanti dell’intero plesso scolastico lo apprezzano, anche perché ha un carattere piuttosto riservato e portato a avvantaggiare più le concrete azioni che le parole”.
Poi, alla donna torna in mente la divisa che avevano quando, di sabato, “facevano ginnastica” in Largo Portagrande. Bambine e ragazze (chiamate Piccole e Giovani Italiane) indossavano una gonnellina nera di seta, calze bianche con le scarpine di vernice nera, una camicia bianca con una fascia che traversava la spalla con la “M” di Mussolini incastrata dentro, il berrettino di seta nero, i guanti bianchi. “Era una divisa bellissima!”, esclama la nostra interlocutrice.
I ragazzi come Leonardo, già figli della Lupa, negli anni successivi si chiamano dapprima Balilla e poi Balilla Moschettieri perché hanno in dotazione un vero e proprio piccolo fucile. In età adolescenziale son detti Avanguardisti. “Ricordo – precisa la donna- il luogo di custodia delle armi o armeria. Era il pianterreno di fronte all’antica cantina di “Scia’ Razielle, la cantenére” (Grazia Iannacci), all’imbocco di Via Municipio”.
La divisa da Balilla era costituita da un paio di pantaloncini grigio-verde, la classica camicia nera, il fez (un cappellino con delle frange laterali). Avevano un fazzoletto blu passato sotto il collo della camicia e fermato da un grosso medaglione con la testa di Mussolini.
Durante gli anni di guerra vige il cosiddetto regime autarchico: tutto il popolo italiano (il rignanese compreso), scarseggiando i prodotti d’importazione, deve essere autosufficiente e quindi in grado di produrre tutto quello che serve, dal vestiario alle cibarie.
A tal proposito, riprendendo il discorso, Vincenzo racconta: “Io e mio fratello Leonardo portavano sotto il tacco delle scarpe un ferretto arrotondato come quello che veniva fissato sotto le zampe dell’asino.
Un altro ferretto, più piccolo, veniva sistemato alla punta della calzatura (“puntetta”). Quest’ultimo era rivoltato sul davanti cosicché, anche se si sferrava un calcio ad un barattolo o ad un sasso, la scarpa non subiva danno perché rinforzata col metallo. Quando i ferretti fissati si consumavano, si sostituivano.
Le scarpe venivano utilizzate per andare a scuola e nei giorni di festa. Per il resto del tempo ci si serviva dei cosiddetti “scarponi” che, al posto delle suole, avevano plantari ottenuti sagomando la gomma. Le tomaie, di tela grezza, erano tenute strette al tallone da corregge di gomma e, raramente, di pelle.
Qualche volta per non rovinare questo rozzo tipo di calzature che i cafoni usavano abitualmente, si girava in paese scalzi. Lo faceva anche Leonardo. Quand’era in Madagascar, come flashback, spesso gli tornava alla mente la sua infanzia ed i piedi nudi. Favoriva la reminiscenza il ragazzo malgascio che abitualmente lo accompagnava: al vederlo scalzo gli saliva un groppo in gola. Tanto riferisce il Salesiano in una delle sue cronache.
A quei tempi, sino agli anni ’50, erano attivi in paese due valenti artigiani, capaci di realizzare scarpe finite meglio dei laboratori industriali. Si chiamavano Antonio Pintonio, alias “Bisacciare” , che operava nell’antico quartiere “La ‘rotte” (grotta) e Michele Carpino che aveva la bottega in piazza.
“La prima volta che io e mio fratello, lui prima ed io quattro anni dopo
– precisa Vincenzo– abbiamo indossato i pantaloni lunghi, è stato il giorno della prima Comunione”. I pantaloni corti, come le calze corte, venivano usati anche durante l’inverno. Nessuno aveva la possibilità di farsi un cappotto nuovo, tranne i ricchi. Gli altri ragazzi dovevano accontentarsi di roba usata (chi sa quanto e da chi) come pastrani sdruciti, mantelli usurati dal tempo e dagli uomini. Qualche volta si rivoltavano gli abiti di famiglia ancora “buoni”, sapientemente recuperati da Vincenzino De Maio e da altri valenti sarti del tempo, compresa zia Elisa. “
“La divisa fascista sia maschile che femminile -aggiunge Giovanna– doveva essere sempre ben tenuta. Perciò fuori dalla scuola si tornava ad indossare gli abiti usuali. Ricordo che Leonardo aiutava i nonni nel casolare di campagna, dove si allevavano mucche ed altri animali di piccola e grossa taglia.
Prima dell’entrata a scuola, Leonardo era solito “fare il giro” del paese. Portava, appeso al braccio, il tipico recipiente di lamiera ricolmo di latte. Agghindavano il grosso contenitore tanti misurini di diversa capacità, da 50 centilitri fino a un litro. Il recipiente era fornito di beccuccio da cui fuorusciva il latte. Il ragazzo era generoso! Dopo il quantitativo richiesto, era solito aggiungere altro latte nel “comodo” del cliente.
Durante gli anni di guerra vige il cosiddetto regime autarchico: tutto il popolo italiano (il rignanese compreso), scarseggiando i prodotti d’importazione, deve essere autosufficiente e quindi in grado di produrre tutto quello che serve, dal vestiario alle cibarie.
A tal proposito, riprendendo il discorso, Vincenzo racconta: “Io e mio fratello Leonardo portavano sotto il tacco delle scarpe un ferretto arrotondato come quello che veniva fissato sotto le zampe dell’asino.
Un altro ferretto, più piccolo, veniva sistemato alla punta della calzatura (“puntetta”). Quest’ultimo era rivoltato sul davanti cosicché, anche se si sferrava un calcio ad un barattolo o ad un sasso, la scarpa non subiva danno perché rinforzata col metallo. Quando i ferretti fissati si consumavano, si sostituivano.
Le scarpe venivano utilizzate per andare a scuola e nei giorni di festa. Per il resto del tempo ci si serviva dei cosiddetti “scarponi” che, al posto delle suole, avevano plantari ottenuti sagomando la gomma. Le tomaie, di tela grezza, erano tenute strette al tallone da corregge di gomma e, raramente, di pelle.
Qualche volta per non rovinare questo rozzo tipo di calzature che i cafoni usavano abitualmente, si girava in paese scalzi. Lo faceva anche Leonardo. Quand’era in Madagascar, come flashback, spesso gli tornava alla mente la sua infanzia ed i piedi nudi. Favoriva la reminiscenza il ragazzo malgascio che abitualmente lo accompagnava: al vederlo scalzo gli saliva un groppo in gola. Tanto riferisce il Salesiano in una delle sue cronache.
A quei tempi, sino agli anni ’50, erano attivi in paese due valenti artigiani, capaci di realizzare scarpe finite meglio dei laboratori industriali. Si chiamavano Antonio Pintonio, alias “Bisacciare” , che operava nell’antico quartiere “La ‘rotte” (grotta) e Michele Carpino che aveva la bottega in piazza.
“La prima volta che io e mio fratello, lui prima ed io quattro anni dopo
– precisa Vincenzo– abbiamo indossato i pantaloni lunghi, è stato il giorno della prima Comunione”. I pantaloni corti, come le calze corte, venivano usati anche durante l’inverno. Nessuno aveva la possibilità di farsi un cappotto nuovo, tranne i ricchi. Gli altri ragazzi dovevano accontentarsi di roba usata (chi sa quanto e da chi) come pastrani sdruciti, mantelli usurati dal tempo e dagli uomini. Qualche volta si rivoltavano gli abiti di famiglia ancora “buoni”, sapientemente recuperati da Vincenzino De Maio e da altri valenti sarti del tempo, compresa zia Elisa. “
“La divisa fascista sia maschile che femminile -aggiunge Giovanna– doveva essere sempre ben tenuta. Perciò fuori dalla scuola si tornava ad indossare gli abiti usuali. Ricordo che Leonardo aiutava i nonni nel casolare di campagna, dove si allevavano mucche ed altri animali di piccola e grossa taglia.
Prima dell’entrata a scuola, Leonardo era solito “fare il giro” del paese. Portava, appeso al braccio, il tipico recipiente di lamiera ricolmo di latte. Agghindavano il grosso contenitore tanti misurini di diversa capacità, da 50 centilitri fino a un litro. Il recipiente era fornito di beccuccio da cui fuorusciva il latte. Il ragazzo era generoso! Dopo il quantitativo richiesto, era solito aggiungere altro latte nel “comodo” del cliente.
Ci si accorgeva della sua presenza, grazie al suono di una campanella a cui facevano seguito alcune brevi frasi gridate per vantare la bontà del prodotto: “Lu lattare! Accattateve lu latte di Mattiucce! Uh quant’è fine (buono)!” E’ così che aveva inizio il giorno profano in paese. A destare i credenti provvedeva la campana della chiesa con il gradevole rintoccare mattutino.
Seguiva un confuso vociare accompagnato dal calpestio di chianidde (calzature tipiche delle donne “fatte”) e di zoccoli calzati dalle più giovani. I passi degli uomini, a causa degli “scarponi”, erano felpati così come quelli del-l’apprendista-fornaia che traversava le selciate stradine del paese per annunciare di volta in volta alle massaie che avevano impastato “Rachelì’, Giuvannì’, Mari’, Resine, il forno è pronto!”
Dopo il quotidiano giro, Leonardo inzuppava nel poco latte rimasto un tozzo di pane duro. Poi, con la borsa di cartone pressato a tracolla, in un baleno raggiungeva Largo Portagrande. Adunava i compagni ed in ordinata fila li conduceva all’interno dell’edificio e, quindi, in classe.
Dopo il rituale saluto, i ragazzi si sistemavano a due a due nei grandi banchi di legno. Ogni giornata di lezioni principiava col dettato. Gli alunni immergevano la punta metallica dell’asta nel calamaio pieno d’inchiostro e cominciavano a scrivere sul quaderno a righe. Leonardo era sempre il primo a consegnare alla maestra lo scritto ed incassava il solito “bravo!”, da primo della classe.
Prima delle lezioni la maestra, in osservanza del programma ministeriale, parlava brevemente di Mussolini per fare di ogni alunno un fascista convinto. Anche l’ora di ginnastica serviva allo stesso scopo. Il motto coniato per la scuola era: “Libro e moschetto, fascista perfetto!”
Subito dopo l’insegnante passava alle “materie del giorno”: Storia, Geografia, Aritmetica. Leonardo prediligeva quest’ultima branca. In prima classe aveva imparato presto a far di conto, a declinare a memoria l’intera tabellina. In Quinta si rivelava un vero e proprio piccolo ragioniere, tanto che ogni problema di conto e di commercio che insorgeva in famiglia ci pensava lui a risolverlo.
Alla domanda “Leonardo frequentava la chiesa?”, Giovanna risponde: “Noi ragazzi frequentavamo la chiesa solo la domenica e alle altre feste comandate per assistere alla Santa Messa e, magari, al catechismo. Nei giorni feriali maschi e femmine, dopo la scuola, eravamo costantemente impegnati ad aiutare con il nostro lavoro la famiglia.
Gli eccessi del dopoguerra
Il ritorno della scuola all’Edificio “P.Antonio Fania” nel 1946 fu segnato da eccessi “anti”. Infatti, di notte tempo alcuni facinorosi, confusi dalle ideologie, provvidero a cancellare le figure in alto rilievo dei fasci sugli stipiti del balcone centrale, là dove campeggiava la bandiera italiana. Un lavoro che non fu perfetto, perché sotto è visibile ancora oggi l’assetto originario della scultura. Trattandosi di opera d’arte, l’unica in loco che segna lo stile impero dominante in quel periodo, la distruzione fu alquanto criticata dalla gente di sapere e dai democratici in genere, che la definirono da subito una grave azione anti-storica.
E questo perché, indipendentemente dall’appartenenza politica, siamo figli della storia e del passato un po’ tutti. Pensate che prima lo stesso fabbricato fu abitato per qualche anno dai soldati anglo-americani, nemici acerrimi del nazifascismo, che, durante il periodo di permanenza, non si sognarono mai di togliere il distintivo dei nemici.
Chi scrive, nonostante non avesse ancora l’età per andare a scuola, ha fissa nella memoria una sola sfocata immagine della presenza degli “americani” nei pressi: la loro quotidiana partita a pallone nell’ampio Largo Portagrande che occupava l’area antistante il citato Edificio. In prossimità della Ripa, detto “Pizzo dell’orto” – ricorda ancora – c’era una rete protettiva per evitare che il pallone cadesse nel sottostante precipizio.
Nel primo dopo-guerra il cosiddetto frontismo PSI – PCI era già una movimentata realtà in paese, composto in massima parte dagli anziani rimasti a casa e dai primi reduci rientrati. Tra questi c’era anche Pasquale Campanale (1906). Fervido socialista, rientrato da poco dalla Germania, dove lavorava da internato in ferrovia, era un assiduo frequentatore della sezione, attiva nella traversa di Via Piccirilli sbucante davanti alla Chiesa Matrice.
Un giorno egli fu convocato in Caserma dai CC. Era accusato di aver portato in sezione una bomba a mano e volevano sapere il perché. In proposito c’era una denunzia anonima depositata assieme all’ordigno, la notte prima, davanti alla porta della struttura. L’uomo negò ogni addebito, anzi scendeva dalle nuvole. Fu mandato indietro in attesa di provvedimenti.
Per più di una settimana l’interessato rimase chiuso in casa, con la paura in gola e la testa che gli turlupinava piena di supposizioni e di sospetti nei confronti di questo o quel compagno invidioso o rivale, quasi tutti di marca PCI. Non potendone più scrisse una lettera a Luigi Allegato, allora responsabile del Comitato di Liberazione, che prese a cuore il contenuto e dopo qualche giorno piombò in paese, liberandolo da ogni impiccio.
Un altro episodio triste fu quello che interessò M.R., uno dei responsabili più in vista delle locali camicie nere. Una sera fu preso da un gruppo di ubriachi, appena dimessi dalla cantina di “Razielle, la Cantenére” e sollevato a braccia fu trascinato sulla Ripa – Belvedere, dove in un angolo regnava sovrano il carro per gli escrementi, che svolgeva tra riempimenti e svuotamenti i servizi igienici della comunità, quasi tutta priva di allacciamenti ai pozzi neri.
La rete fognaria minima dei Putignano sarà costruita solo nel 1947, come si legge da qualcuno dei coperchi di ghisa ancora salvo. “Lasciatemi stare! Non vi ho fatto niente, anzi quando ho potuto , ho sempre aiutato le vostre famiglie! – gridava a squarciagola, dimenandosi a più non posso, il malcapitato.
Erano quasi arrivati a destinazione, ossia al carro dove buttarlo dentro, allorché sbucò dall’ombra G.T. , allora seguitissimo ed apprezzato segretario sezionale. All’Alt gli improvvisati “carcerieri”, abbandonarono la preda ed andarono immediatamente via con la coda tra le gambe. Parimenti fece il “liberato” che, ringraziato con gli occhi il suo salvatore, proseguì il cammino e in un battibaleno si trovò a casa sua, ubicata nel cuore del borgo antico di origine e fattura medievale”.
N.B. In gran parte le testimonianze e i racconti sopra descritti si trovano nei vv., di chi scrive: “Don Leonardo Cella, Maritato Group, Roma, 1912 (online) e “Repetita Iuvant!” nel v. “IO PARTO NON / SO SE RITORNO / Storie di Caduti e Reduci della II Guerra Mondiale, 2014.