Antonio Del Vecchio
San Marco in Lamis, martedì 4 gennaio 2022 - Il Servizio Militare di Leva in Italia dal 2004 non c’è più. Era andato avanti dal 1861 (Unità d’Italia) per più di 160 anni. In senso dispregiativo era detto anche naia, specie da quelli a cui andava stretta la divisa. Per il resto dei giovani, soprattutto quelli del Sud, era, invece, una sorta di liberazione dalla schiavitù del lavoro e dell’ignoranza in genere. Per alcuni era addirittura la prima fuoruscita dalla loro provincia e circoscrizione, se non dal paese di residenza.
C’era, quindi, chi lo osannava senza mezze misure e chi lo detestava ad ogni costo, per via della carenza di poter fare il comodo proprio e di ubbidire ciecamente, spesso a chi ne sapeva meno di lui, in termini di cultura e di comportamento. Tra questi c’era anche Ottavio, il protagonista del racconto che segue, che lo considerò sin dall’inizio una vera e propria “pietra al collo”, come recita, appunto, il titolo.Lo scritto sarà inserito, assieme ad altri “ricordi” del protagonista - autore nella 2 e. del v. “Ritratto del giovane Ottavio – Racconti garganici”, Circolo “Giulio Ricci”, 2020, prossimo ad riandare in vetrina. Ecco, il racconto( Buona lettura!):
"A quel tempo, anche Ottavio, studente di II Liceo assolveva il Servizio militare di Leva. Era l’estate del 1961. Aveva vent’anni e mezzo e si trovava a Spoleto, a seguire il Corso di Allievo Sergente di Complemento, in sigla, ASC . Ne aveva fatto domanda non tanto perché gli piacesse il militare, anzi lo detestava in toto, quanto perché l’assolvimento di siffatto obbligo gli avrebbe permesso di continuare gli studi senza patemi. Allora, a differenza di oggi, il rinvio era possibile, infatti, solo in caso di frequenza dell’ultima classe di Scuola Superiore. Invece, l’interessato era alla seconda Liceo. Bastava essere ammesso al terzo ed ultimo anno, per ottenere il rinvio della maledetta partenza. Non ce la fece per solo pochi giorni. Fu costretto, infatti, a partire alla fine di maggio di quell’anno, una settimana prima degli scrutini.
Che scalogna! Ci perse, infatti, due anni per arrivare alla maturità. Ritardo che incise su tutte le altre scelte successive: mancata iscrizione a Medicina (anticipata addirittura da una casuale intervista a La Gazzetta del Mezzogiorno), forzata frequentazione di Lettere Moderne, ecc. Il tutto fu rimediato, comunque, a seguito degli esiti concorsuali nel pubblico impiego (due concorsi per lo stesso posto) e poi nel servizio come animatore culturale prima, concluso con l’attribuzione della funzione di Direttivo 6. E questo reso possibile grazie al superamento di un apposito concorso interno, al quale era stato ammesso per aver superato oltre la metà degli esami universitari previsti per la laurea. Si tratta dell'ultimo grado funzionale ed economico, prima del dirigenziale, dal quale fu escluso, essendo stato lo stesso bandito per la prima volta solo nel gennaio 2008, in concomitanza con il suo pensionamento.
Torniamo al militare. Quando il nostro protagonista arrivò a Spoleto, la prima cosa che attirò la sua attenzione in senso positivo fu la Caserma, piuttosto ben fatta dal punto di vista logistico e strutturale. Aveva camerate ben tenute e moderne, alcuni accoglienti refettori con tavoli a quattro e a due unità. Due cinematografi. Altrettanto accogliente la città, per via dello svolgimento del Festival dei Due mondi. Quasi per ironia della sorte, il motivo più ascoltato al Juke box era nientepopodimeno “Odio l’estate”, titolo e parole che calzavano bene alla sua situazione di militare “forzato”. Gli diedero due divise, una detta impropriamente da lavoro, nonostante fosse uguale all’altra, e la seconda destinata ai giorni festivi e alla libera uscita. Ebbe come comandante un valido ed empatico Capitano che, a differenza degli altri, trattava i subordinati con molta umanità. Fu lo stesso ad ispirare la fondazione di un giornale a cadenza settimanale. Un grande foglio murale che tutti potevano leggere. A Ottavio fu affidata la rubrica “Lettera alla Fidanzata”. Vi scriveva lunghe missive, che facevano piangere i commilitoni e nel contempo i suoi soliti amici ed amiche lasciati al paese, a cui provvedeva ad inviare puntualmente una copia di suo pugno.
Fu creato anche un complesso canoro – musicale, ben intonato con strumentazione e batteria per lo più arrangiata alla meglio, come scranni in ferro, vassoi e piatti di stagno e posate. Fortunatamente c’era qualcuno che si era portato dietro la chitarra, un altro la fisarmonica ed un altro ancora il sassofono. Di cantanti ce n’erano più di uno. Si cominciava, verso il tardi, prima della mezzanotte, mentre tutti gli aspiranti sottufficiali erano a letto, eccoti attivato dal gruppo, sistemato in un angolo della camerata, il mini concerto, con canzoni blues, rock, Calipso, chà chà e quant’altro di moderno. Ad esibirsi c’erano due cantanti esperti , appartenenti a complessi famosi, di cui non si ricordano più i nomi. Per un’ora circa si faceva baldoria, talvolta accompagnando il canto dai loro letti, altre volte, scendendo in piano a ballare il ritmo preferito. Capitò che una volta, il chiasso e la musica diventarono così dominanti, da essere sentiti persino in città e soprattutto e dalle orecchie dell’ufficiale di picchetto, un tenentino tutto pepe, che abbandonò la garitta e venne in camerata, accompagnato da due sergenti e notificò immediatamente ai presenti la sua decisione: “da ora in poi niente più musica e canto”. Tutto questo non era previsto dal Regolamento , detto allora “Circolare 1000”. Fu questa la prima normativa ad insegnare ex cattedra gli ufficiali docenti, e i discenti a seguirla con viva attenzione dalle loro comode poltroncine sistemate nell’aula a semicerchio, anch’essa moderna ed agibile.
L’altra novità che colpì l’interessato fu il servizio al refettorio, composto da uno degli allievi sergenti, che faceva da capo e da alcuni soldati semplici a mo’ di camerieri. Una volta capitò a Ottavio la guida. La squadra doveva prelevare il tonno dal magazzino. Presero dei grossi barattoli e si avviarono al refettorio. Strada facendo, al capo squadra venne la voglia di assaggiare dal ‘suo’ grosso barattolo qualche tonno, calò la mano e ad un tratto l’involucro che teneva in mano si piegò sulla sua persona. Fu sazio sì, ma nel contempo desolato, perché, essendo domenica, ad insozzarsi fu proprio la sua divisa di festa. Il giorno successivo, in libera uscita, portò l’indumento ad una pubblica lavanderia per la pulitura. L’andò a ritirare qualche giorno dopo, ma la divisa venne si pulita, ma non del tutto come prima. A questo punto girò l’uso, quella lavata diventò da lavoro e quella usata fu adoperata nei giorni di festa e durante le pubbliche cerimonie. Nessuno si accorse mai del baratto.
Dopo un paio di mesi, finite le lezioni teoriche, gli allievi passarono alle esercitazioni pratiche con le armi cosiddette di gruppo. Si cominciò con il fucile Garand, di otto colpi (fu radiato dall’E.I nel 1975). Si andò al poligono, ubicato a due chilometri dalla caserma. Dopo di che si sistemarono nei luoghi di tiro (un’ex cava). Ognuno di loro aveva accanto un tiratore scelto, di solito un ufficiale. Di fronte avevano, a circa trecento metri , una serie di piattaforme metalliche su cui erano sistemati i relativi bersagli a cerchi concentrici, guardati dagli zappatori, uno per ogni singola piazzola di tiro. Ottavio fu il primo. Caricò l’arma, inserendovi il caricatore da otto e dopo averlo chiuso e approntato, lo imbracciò e , al segnale del suo accompagnatore, scaricò i primi tre colpi. Fecero quasi centro. Nel dare l’esito non fu lo ‘zappatore’ dirimpettaio, ma quello seguente. Il suo accompagnatore gridò, stupito: “ che fa quel cretino? “. Accortosi, però, che l’errore era stato commesso da sé medesimo, per via del suo occhio malandrino, Ottavio rimase in silenzio. Nel contempo, corresse il tiro, scegliendo per davvero questa volta il bersaglio giusto. Alla fine, ci furono i risultati. A parte i suoi primi cinque centri, che gli furono assegnati, ci fu baruffa, quando lo zappatore del bersaglio successivo anziché contare gli otto colpi previsti, ne contò undici, suscitando la rabbia ulteriore del superiore.
Il giorno più brutto che trascorse il nostro militare fu quello della vaccinazione. Accolsero con vistoso timore la grossa siringa, ma sopportarono quasi tutti. Anzi, alcuni si misero a scherzarci su pesantemente. I sintomi fastidiosi si manifestarono la mattina successiva. Si sentivamo tutti rotti e nessuno si alzò. Avevamo febbre alta e il petto gli doleva assai. Così furono messi in consegna per tre giorni, in attesa che il malanno passasse. Pranzo e cena, interamente a latte e a brodaglie, furono serviti dai fanti. Alla sveglia dell’ultimo giorno, scattarono tutti, tranne qualcuno ancora febbricitante, e tornarono al lavoro usato, cioè a seguire le lezione in aula e le ginniche esercitazioni in campo, questa volta portate avanti con grande sacrificio. Infatti, ad ogni movimento il petto e i muscoli connessi gli dolevano terribilmente. Passarono altri giorni ancora sempre con il medesimo impiego sino a quando , ritenendosi ormai guariti con buona pace del loro istruttore, sempre vigile e duro nell’impartire suoi secchi e precisi comandi, rinsavirono.
Altre volte, i discenti venivano mandati a fare esercitazioni di guerra al poligono. Per prima cosa si apprendeva l’arte del mascheramento del viso, eseguita a comando con un apposito pastello nero. Quindi, ciascun componente si esercitava a conoscere e a maneggiare, ad una ad una, tutte le armi di gruppo: oltre al fucile Garand, il moschetto detto MAB, la bomba a mano, il fucile mitragliatore, il lancia fiamma e il bazooka. Una volta capitò ad Ottavio di trovarsi in una comica situazione. Situazione che per poco non finì in tragedia. Infatti, si doveva simulare, un assalto di gruppo al nemico. Insieme ad altri, si mise pure lui in posizione: con la mano sinistra teneva afferrato il ‘MAB’, con l’altra una bomba mano, detta “SRCM- Sigla, di cui si è dimenticato lo sviluppo verbale. Comunque, solo parzialmente deflagrante. Al comando del Capitano, si lanciò in corsa, l’interessato. Aveva già tirato la spoletta (sicura) alla bomba, non gli restava che lanciarla. S’impappinò. Pertanto, anziché la bomba, scagliò il moschetto, mentre il comandante gli gridava dietro: "buttaa,..!buttaa...! ". Finalmente, capì, e cercò di lanciare lontana la bomba, buttandosi nel contempo a terra in difesa. Cosicché l’ordigno scoppiò vicino, ma non fece danni.
Dopo qualche settimana, comunicò al Comandante di volersi ritirare dal corso e chiese di essere assegnato al reggimento in qualità di soldato semplice. Intanto, suo padre gli aveva fatto sapere di aver impegnato per il suo trasferimento a Roma, il solito maresciallo sopra accennato. Passarono altri giorni ancora fino a quando un bel giorno fu convocato in ufficio dal comandante, che gli mostrò subito due telegrammi. Il primo informava che c’era per lui un posto nella Capitale, al Ministero, l’altro quello ordinario che lo aggregava quale soldato assaltatore al 157° Rgt di Fanteria di stanza a Genova. Rifiutò il primo, per un motivo banale. Conosceva già la Capitale, mentre il Capoluogo ligure era una città da lui appetita, perché ancora tutta da scoprire. Partì qualche giorno dopo, via treno, passando, da Perugia e poi da Firenze. Raggiunse la destinazione a sera inoltrata. Fu accolto e mandato in camerata. Si sentiva morire, vedeva tutto triste e sporco. L’indomani, il suo stato d’animo si aggravò, perché il giorno prima erano affogati in mare due soldati, non per inesperienza, bensì per blocco intestinale. Fu consultato anche il nuovo arrivato per la veglia funebre. Rifiutò, perché non aveva ancora la divisa del Reggimento, che gli fu consegnata l’indomani dal magazziniere, unitamente al resto del corredo.
Anche in questo coglieva una novità, quella della cravatta rossa, provvista di targhetta argentea con sopra la scritta “Leoni di Liguria”, ornamento che attirò la curiosità del pubblico in ogni dove. Per di più la targa-motto diede occasione di suscitare dei momenti di forte ilarità, durante una escursione della compagnia sul vicino Forte “Richelieu”. Una salita, quest’ultima, assai ripida e faticosa costituita da una sorta di scala di Sant’Anna, Verso la fine erano tutti stanchi, per cui si buttarono a terra come sacchi di patate, nel mentre il Capitano avanti li invocava di proseguire, incitandoli: “Su avanti, leoni di Liguria”. La truppa non solo non si mosse, ma anziché ruggire, come fanno i leoni, belò in coro “Meeh..., meeh ,,,! al pari di un vero branco di pecore. Da allora non andarono più sulla montagna, ma esercitazioni ginniche e corse furono sostenute nel cortile della caserma.
Un altro scherzo da lui vissuto fu quello della libera uscita. Un amico di suo padre, in servizio come sottufficiale al carcere "Marassi" lo venne a trovare in caserma, presentando all’ufficiale di picchetto in servizio sull’uscio il suo tesserino di riconoscimento. Il dirimpettaio non appena ne lesse il nome, subito gli chiese: “parente del Colonnello? (così si chiamava)”, l’altro dapprima farfugliò, ma poi confermò chiaramente. Da quel giorno, il permesso giornaliero era assicurato. L’amico lo portava a casa sua, gli faceva indossare l’abito borghese e subito in giro per ore ed ore nella città a visitare monumenti e bellezze, compreso il porto dove era ancorata da tempo l’Andrea Doria. Lui tanto intrigò, che alla fine gli fu concesso il permesso, permettendo ad entrambi di visitarla da capo a fondo. Nonostante questi svaghi, il suo stato d’animo rimaneva sempre nero. Voleva assolutamente ottenere il congedo e rientrare a scuola. L’occasione propizia, arrivò presto, quando ormai non sperava più. Un certo giorno si presentò da lui un certo Prof. di Francese. Si chiamava Vincenzo Mercuro di Lesina. Era stato incaricato di aiutarlo da un suo cugino che viveva a Rignano. Costui, tanto brigò e un certo giorno il giovane fu chiamato a visita medica presso il contiguo ospedale militare. Ci andò e seduta stante gli fu concessa una licenza di convalescenza di 20 gg. più viaggio. Due giorni dopo, si ritrovò in paese.
Vi arrivò con la corriera delle 20.00. Non appena sceso dal pullman, anziché dirigersi verso casa, dove lo attendevano con ansia i famigliari, si avviò verso l’abitazione dell’amata sulla Ripa. Fu un percorso lungo, perché strada facendo, era costretto a salutare e a dare retta a dritta e a manca. Puntualmente gli si chiedeva del perché della “cravatta rossa” e lui rispondeva con un sorriso di vanto: sono un assaltatore. E giù a spiegare...Appena giunto alla casa di lei, lo accolse la madre, manifestando una repressa sorpresa: “Ah, sei tu – balbettò – ora te la chiamo”.
La figlia era impegnata allo svolgimento di una faccenda domestica irrimandabile. Si stava provando un abito nuovo, per fare bella figura col fidanzato, di cui aveva avvertito da subito voce e presenza. Per cui, passarono altri minuti ancora, mentre suocera e genero continuavano a fissarsi in silenzio, provando imbarazzo. Finalmente si presentò sull’uscio la ragazza. Vestiva come al solito alla sbarazzina: capelli corti alla “maschietto” (così si diceva allora) camicetta a fantasia su gonna di terital di colore marrone, un foulard rosso attorno al collo, da cui fuorusciva il suo viso acqua e sapone e una boccuccia carnosa“strappa baci”.
Il giovane si sarebbe lanciato a tuffo per stringerla al seno ed avvertire il suo corpo caldo di sedicenne. Ma gli occhi della madre o il timore di essa glielo impedirono. Rimediarono a notte fonda. La divisa aveva fatto colpo su di lei. Si sentiva più innamorata del solito. Parimenti a quanto accadeva per il grosso pubblico femminile dell’epoca, a cui piaceva l’odore della naftalina. Si diceva scherzosamente così di quelle che si innamoravano facilmente di carabinieri e militari in genere, i cui abiti per prolungarne la durata erano custoditi nei magazzini con siffatta sostanza. Secondo gli esperti tale preferenza aveva un’origine di natura psicologica. Più che altro era dovuta alla voglia di evadere che circolava a quel tempo, specie tra il genere femminile, che induceva molte a trascurare gli incivili maschi del posto e a considerare e talvolta a darsi ai forestieri. La libertà sessuale e di genere sarà conquistata col tempo e la diffusione dei mass-media, come la televisione.
Questa volta in paese, pure lui ci mise la sua abilità. Convinse il medico curante a proporre in certificato di continuazione della malattia e cura. La conferma o meno doveva emetterla la struttura medica del Distretto Militare, retta da un certo Di Mauro, dirigente democristiano di prim'ordine, pare. All'uopo si fece accompagnare da un certo "Pappantonio", a quel tempo segretario della locale sezione DC, che tutto poteva. Il bello fu che il medico, anziché riceverlo con onore, lo cacciò via, rimproverandolo aspramente. Al giovane venne meno il credo e sbottò immediatamente in pianto a dirotto, confessandogli tra un singhiozzo e l'altro la verità sul suo caso. L’altro si commosse e concesse seduta stante la proroga della licenza di altri 20 gg.
Nel frattempo Ottavio aveva ripreso a frequentare regolarmente la terza Liceo. Gli cedevano il passo tutti, specie le donne, incuriositi dalla sua divisa e soprattutto dal suo essere in carne, grazie alle esercitazioni ginniche militari trascorse. Allo scadere, gli fu rinnovata la licenza. Si era già a febbraio inoltrato. Ci voleva ad ogni costo una licenza più lunga, per permettere al giovane di poter agevolmente terminare l’anno scolastico ed essere ammesso agli esami. Quando fu al Distretto, il medico, gli chiese, scherzando: " Vuoi tornare al corpo o continuare la convalescenza?". Ovviamente l’interpellato optò per la seconda soluzione, ossia andare al Distretto Militare regionale e rischiare... In questo lo aiutò il divino. Durante il viaggio in treno per Bari lo assalì la febbre a 40’. Quando scese barcollando in stazione non capì più nulla. Perse i sensi e si trovò in un battibaleno ricoverato all’Ospedale Militare di Carbonara. Era stato colpito da un attacco grave di bronco-polmonite.
Così avevano diagnosticato i medici, prescrivendogli una iniezione al giorno di penicillina. Lui e gli altri si offrivano con grande piacere, perché a servirli era una bellissima e ben tenuta infermiera crocerossina. Non ci pensò. Dopo pochi giorni erano già in sesto. Fu allora che nel primo pomeriggio, mentre una radiolina a transistor trasmetteva ad alto volume"Let'sTwist again", canzone di Peppino Di Capri, si buttarono giù dal letto e ci dettero al ballo nel contiguo corridoio. Uno spettacolo comicissimo! Si ballava non in pigiama, ma in camicia da notte, quella con lo spacco ai due lati.
Alla dimissione gli fu concessa l'ambita licenza di 60 gg e riprese la scuola. Alla scadenza, di quest'ultima, di nuovo a Foggia e poi a Bari. L’autorità sanitaria distrettuale regionale gli concesse ancora una ulteriore licenza di 60 giorni, che finivano oltre la ferma dei quindici mesi. Così il protagonista di questa storia poté a tempo debito sostenere gli esami, ma non li superò per via dell’alto numero di assenze.
Così continuò per un altro anno ancora gli studi, tanto da essere licenziato a giugno con il più alto voto in italiano e il massimo in storia dell’Arte. Pezzo di carta che gli permise di iscriversi e di frequentare il corso di Lettere Moderne all’Università di Napoli. Anche questa sede, scelta per caso, al posto di Bari, perché nuova e foriera di altre esperienze. Ma questa è un’altra storia!