Franco Presicci
Gargano, mercoledì 23 dicembre 2015 - Non manca mai di esaltare la potenza espressiva del dialetto; di celebrare il valore estetico della poesia vernacolare; di leggere e recensire, per esempio, Joseph Tusiani e i suoi poemetti “Na vote è ‘mpise Cola, “Li quatte staggione”, “Lu deddù”; o la composizione che riguarda l’asino afflitto per il soprannome di “ciucce”. Francesco Lenoci - a lui mi riferisco -, economista eccellente (sulla materia ha pubblicato oltre 30 libri)
buon letterato (parlerebbe per ore di Luigi Capuana, del marchese di Roccaverdina e del verismo), melomane da sempre, entusiasta del Festival della Valle d’Itria, patito di Mahler, sul dialetto m’incalza, mi esorta: appena gli fornisco l’occasione, improvvisa in privato una conferenza su Francesco Paolo Borazio, recitando quasi a memoria “Nu porce delli mamme”.
È appassionatissimo del dialetto, e io lo ammiro, anche perché stando a Milano riesco ad usare la lingua “d’a nàche” soltanto con qualche parente stretto. E questo limite mi crea irrequietezza; mi fa sentire mutilato. Il dialetto possiede la nostra anima, è un bene culturale da proteggere; è la nostra patria. Spesso con Lenoci abbiamo discusso in dialetto, lui nel suo, io nel mio, intendendoci senza alcuna difficoltà, essendo io figliastro di Martina e lui cultore dei Due Mari. Continuiamo a farlo, mettendo in risalto i vocaboli onomatopeici, icastici, la forza evocativa, l’immediatezza, il fascino, del dialetto. E ogni volta è come respirare aria pura.
È stato lui a farmi conoscere Tusiani e a spingermi a visitarlo: un invito a nozze. Io gli ho parlato dei tarantini Alfredo Lucifero Petrosillo, tra l’altro autore del poemetto “U travagghie d’u mare”; Alfredo Nunziato Majorano, di cui non dimentico “Tàrde vècchie mjie” (“Ddo’ pummedòre appìase e sècule de stòrie…”; Alfredo Marturano, che in una festa della matricola mi affidò “’U cuèrne de Marjie ‘a canzirre”, un suo testo che non andava in scena, se non erro, dal ’46, e venne ad assistere alla recita al Circolo dei Marinai; Diego Fedele (“’U rafanìedde”, brillante, ricco di allusioni fatte con ironia garbata e divertente…),.. .
Adesso lui, Lenoci, ha scritto la prefazione per l’antologia “Scrigno di emozioni 2015”, curata da Teresa Gentile di Martina Franca, in cui sottolinea che nel Novecento sono stati i poeti, in Russia, in Grecia, in Francia, in America Latina e in molti altri luoghi “ad esprimere i grandi temi essenziali collettivi e al tempo stesso l’intimità più profonda del cuore dell’uomo”, enfatizzando che è stata la poesia a cogliere “meglio di ogni altra cosa i grandi valori, primo fra tutti quello della libertà”.
Dice anche che a Palazzo Sormani a Milano, dove nella biblioteca ha assistito alla presentazione di “Poesia e Conoscenza”, la nuova rivista diretta dalla sua amica Donatella Bisutti, e a Palazzo Recupero a Martina Franca, “dove l’infaticabile e dolcissima Teresa Gentile riunisce il salotto letterario, predominano valori e ideali che si somigliano molto, per cui è davvero il caso d’impegnarsi”.
A Palazzo Recupero trovano lo spazio che meritano poeti come Cinzia Castellana, Benvenuto Messìa, che scrive versi godibili tra una corsa e l’altra in bicicletta (Fausto Coppi? Chi è costui di fronte a Ben?), Giovanni Nardelli (bella la sua “Purpette”, detta nella mia parlata) e altri: tutti cari a Francesco e a me. Perché sono bravi, artisti veri.
In questa sua prefazione Lenoci giura che non si stancherà mai di ripetere che “se si affievolisce la vitalità del dialetto, la conseguenza è la scomparsa di un bagaglio di saggezza unico al mondo: la nostra identità culturale”. Ancora: “Il dialetto è un’esplosione di gioia”. E ricorda che un amico, universitario a Firenze andava a trovarlo a Siena, distraendolo dai testi di economia, per poter parlare con lui in dialetto. Ricorda anche che, nonostante i suoi cinquant’anni, ancora oggi in casa lo chiamano “u peccinne”. E rende omaggio a Teresa Gentile e al suo “Scrigno di emozioni”. E al dialetto come lingua di dentro.
Amato dialetto. Peccato che soltanto in tarda età ho trovato il coraggio di scrivere, con il tuo aiuto, filastrocche “sus’a ‘stu mùnne ca stè’ vè’ a ruète”; “sus’a le mafrùne ca tènene ddo’ fàcce”, “sus’a chìdde ca se vàsene mmìenz’a strate”, “sus’a chìdd’òtre ca crèren’angòr’a le masciàre”... Senza ovviamente sentirmi Claudio De Cuia, che oltre a donare deliziose poesie, ha scritto anche una grammatica del vernacolo tarantino.