Mario Ciro Ciavarella Aurelio
San Marco in Lamis, lunedì 17 agosto 2020 - Arrivavano puntualmente il primo di Agosto e andavano via l'ultimo giorno dello stesso mese. Su un pulmino rosso, forse della Volkswagen. E quando scendevano, da lì dentro, ne contavamo almeno una decina!! Il capofamiglia, la moglie, i figli, cognati e cognate, nipoti e anche pronipoti, e quasi sempre un ospite che se lo portavano dietro dal Belgio.
Una bella, numerosa e simpatica compagnia che allietava la “strada d viccion” per un mese intero. Il loro soprannome era “Baffetedda”, emigrati in Belgio molti anni prima in cerca di fortuna, o almeno di una vita migliore. E noi sapevamo che avevano trovato almeno una di queste due possibilità.
Li aspettavamo con ansia: senza di loro la nostra strada d'estate non poteva essere quella che ricordavamo da sempre. Una famiglia di emigranti molto unita, persone serie e laboriose... e piene di regali per tutti!! donavano a tutte le famiglie di Via Cavour; caffè, cioccolate, caramelle e tanti altri prodotti “belgesi”.
Emigranti sammarchesi ce n'erano (e ce ne sono ancora) in tutto il mondo!!! anche in Cina, dicono che ci sia un sammarchese, a Pechino, e sembra che faccia l'edicolante. E poi ognuno di loro, ha una storia diversa da raccontare. Iniziano tutti ricordando la partenza, la prima partenza da San Marco, per poi continuare dicendo quello che trovarono lì, nel nuovo posto di vita, il primo giorno. Come se facessero una veloce differenza di “stile di vita” tra il prima e il dopo.
Il motivo della partenza era per tutti il lavoro, ma poi tutto quello che succedeva immediatamente dopo, aveva anche degli sviluppi abbastanza diversi tra un emigrante e un altro. Chi aveva trovato Fortuna e chi invece lavorò duramente per tutta la vita giusto per la sopravvivenza. Il Caso decideva tutto!! Quando gli amici emigranti della nostra strada ritornavano per le ferie estive, ci facevano “gli aggiornamenti” sul loro Stato di Famiglia. Proprio in senso anagrafico: ogni anno c'era un nuovo matrimonio e un figlio in arrivo.
Ed era un po' per tutti così: tutte storie di nascita e a volte di morte. Ma la dipartita non veniva così tanto descritta: facevano bene, già l'emigrazione era un qualcosa che ti dava un senso di assenza, quasi un vuoto che col tempo veniva ricordato con attimi di vita spesso non troppo felici.
Il raccontare dell'emigrante era un capitolo a parte: come se tenesse una lezione ai presenti, un docente che non era bravo solo in teoria, ma anche nella pratica. Ti spiegava tutto del viaggio, del luogo di lavoro, delle difficoltà nell'apprendere una nuova lingua e del modo non sempre facile di fare nuove amicizie con altri connazionali. Si era emigrante due volte: quando si partiva e quando si cercava di iniziare una nuova vita completamente diversa dalla precedente.
Il viso dell'emigrante che raccontava era solcato da rughe che da sole spiegavano tutto: non c'era bisogno di tante parole, solo la fisionomia di quella persona, spesso arcana, era un libro aperto. Dove le noti dolenti uscivano dagli occhi e si amalgamavano con le parole che cambiavano tonalità appena un ricordo affiorava nella mente.
Sembrava un coro greco, dove c'era un solo solista che interpretava tutte le voci, utili per far capire agli uditori la vita dura che si era vissuta da tanti anni fino a quel momento. Non era un lamento, ma un racconto con tanti punti esclamativi e poche domande che l'emigrante voleva porsi: era il destino che aveva deciso tutto quello che veniva raccontato. Quando invece raccontava episodi simpatici o addirittura assurdi, quelle rughe si aprivano, diventavano più larghe, quasi dei solchi pronti a raccogliere dei semi per poter far aumentare l'allegria nell'animo degli astanti.
Il viso dell'emigrante era un abecedario dove tutte le lettere e le parole del mondo trovavano un posto preciso, anche se piccolo e quasi nascosto tra le pieghe di un libro.
“Amara terra mia”. Spesso ascoltavano questo brano di Domenico Modugno. C'era quasi sempre questa musicassetta nell'autoradio dell'emigrante, con tante altre canzoni italiane!! difficilmente c'erano musicassette di cantanti tedeschi, svizzeri, belgi. Solo musica italiana. Nel pomeriggio, alla controra, spesso si sentiva arrivare dal pulmino questa canzone di Modugno. Una litania laica che ti entrava nella mente e nel corpo, non importava se si soffrisse, a quel lamento giusto di un uomo, che “malediva” la sua terra.
Maledire e benedire. Penso che nella vita di un emigrante questi due verbi siano stati sempre presenti. Maledirono: il politico che non l'ha aiutato, una donna che l'ha tradito, un parente che l'ha lasciato in un momento di difficoltà, i soldi che non c'erano sempre...
Benedirono: il giorno della partenza per altre terre, l'amore incontrato nelle nuove terre, i figli nati fuori dall'Italia, il datore di lavoro straniero, l'età che avanzava: erano ancora in vita, in Italia, chissà...
Alcuni emigranti in età avanzata ritornavano a San Marco per godersi la pensione. Sudata. “Standata”, si dice dalle nostre parti. Ed era verissimo!! Tantissimi emigranti, all'estero facevano quasi la fame, per poter inviare quasi l'intero stipendio alle famiglie (con prole numerosa). E poi alla fine la tanto agognata pensione, da godersela con i propri cari. Pochissimi quelli che ebbero tale fortuna: molti morivano prima dell'età pensionabile, oppure erano diventati invalidi sul lavoro.
L'emigrante sembra che non ci sia più, inteso come quello che partiva con una valigia come quella nella foto. Adesso l'emigrazione ha altri contorni, sicuramente meno poetici, ma comunque pieni di malinconie. E ricordi che non aspettano altro di essere raccontati.
Ma ci vorrà del tempo...
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Mario Ciro Ciavarella Aurelio