Mario Ciro Ciavarella Aurelio 

San Marco in Lamis, sabato 11 luglio 2020 -  Il pericolo maggiore era di pungersi. Quando mettevi le dita dentro quelle scatole, lì dentro ci potevi trovare di tutto: dall’ago alla plastilina, dai bottoni ai “gorzelloni” (bottoni giganti quasi fosforescenti). Era come il cilindro del prestigiatore: trovavi quello che non riuscivi a trovare da nessun’altra parte in casa tua.

Quando smarrivi degli oggetti piccoli, uno dei posti dove andare a cercare, era proprio nella scatola dei biscotti Plasmon. Ovviamente quando i biscotti erano finiti, quelle scatole venivano riempite di tutto quello che si voleva. Come si usava tanto tempo fa, quando nulla veniva buttato!! ma riciclato e tenuto in vita fino agli ultimi giorni degli abitanti di quella casa. In eterno!! E poi magari quella scatola passava in consegna alle nuove generazioni…

 Era una scatola di latta molto resistente, anche se cadeva, faceva tanto rumore, ma non si rompeva e nemmeno ammaccava. Infrangibile, come quasi tutte le cose che si costruivano una volta. Di colore giallo, dove in posizione decentrata, sul coperchio, c’era il disegno di un culturista che scolpiva una colonna(!?), forse per indicare tutte le proprietà caratteristiche di quel biscotto, che davano tanta forza ai bambini che li mangiavano.

 Ma cos’era il Plasmon? Era un latte in polvere inglese, quindi una sostanza che potesse soddisfare le esigenze nutrizionali infantili già da inizio Novecento. Una storia antica. E una volta che tutta questa sostanza energetica che faceva crescere ossa e muscoli ai più piccoli finiva, quella scatola diventava tutto quello che le nostre mamme e nonne volevano che diventasse!!

 In un’occasione vidi anche un gatto messo lì dentro: era diventata la sua “seconda casa”, dopo quella principale. Un cane non c’entrava, altrimenti avrebbero adagiato anche lui lì dentro. Sul coperchio c’era una pratica maniglia di metallo, che non si rompeva mai: non ho mai visto una scatola   della Plasmon cadere poiché si era rotta la maniglia. Era un piccolo forziere che si chiudeva a scatto, e non aveva bisogno di combinazione per l’apertura.

 Internamente era di latta “non colorata”, quasi ci si specchiava, e veniva conservata quasi sempre in alto, in modo geloso dai nostri genitori:   difficilmente c’erano due scatole Plasmon in un’abitazione. Era un reliquiario laico da “uascia e repunn”, come si dice dalle nostre parti; e per noi bambini era quasi un onore andare a prendere la “sckatelina delli pastarell”, dopo l’ordine della nonna.

 Il bello, per modo di dire, era che in molte famiglie quelle scatole non erano lì, poiché quei biscotti venivano mangiati dai bimbi che vi   abitavano, ma erano scatole regalate dai parenti o vicini di casa, che sapevano l’utilità della scatola gialla, quel colore non è cambiato mai!! Un segno distintivo che dava un senso di antichità a tutto ciò che c’era dentro e che le girava intorno.

 Quando la si apriva era sempre una sorpresa per i più piccoli, i grandi sapevano benissimo cosa c’era nella scatola, ma i più piccoli aprendola   speravano di trovare oggetti che servissero soprattutto per giocare: trottole, “furmell” per la tombola, spille militarti, pettini per le femminucce, gomme per cancellare gli errori fatti sui quaderni, “appezzuta laps” (temperamatite), soldatini e tutto ciò che si poteva conservare in pochi centimetri quadrati.

 E quando veniva conservata, con tutte e due le mani, veniva posta in alto, in qualche scaffale della casa, e la si poteva riprendere solo dopo ordini dati da gente adulta. Difficilmente il bambino di sua iniziativa poteva permettersi di andare a “scovare” lì dentro: potevano esserci anche dei segreti, come lettere di due innamorati, conservate anche per decenni. Missive spedite dal fronte dal marito di quella signora proprietaria della scatola dei biscotti Plasmon.

 Era anche un diario di vite passate: si conservavano ricordi, di poco conto monetario, ma ricchi di significato per chi abitava in quella casa. Anche medaglie al merito o distintivi di associazioni con incarichi particolari avuti nel tempo, che andando a rivedere quegli oggetti si ricordavano episodi straordinari di vite ormai quasi dimenticate. Anche delle piccole foto potevano essere conservate in quelle scatole, soprattutto le foto tessere, piccoli anelli forse di fidanzamenti che poi non ebbero seguito, e tante bobine di fili per cucire. Di tutti i colori, ma soprattutto nero.

 Fili di colore nero, era la norma in tutte le case di tanti anni fa: prima o poi sarebbe servito, per cucire o riparare maglie che venivano indossate anche per tutta la vita, quando c’era un lutto. Anche piccoli merletti di colore bianco, per gli abiti della Prima Comunione. E tanti aghi conficcati nelle bobine dei fili.

 Chissà cosa troveremmo adesso se mettessimo le mani dentro una scatola di biscotti Plasmon. Penso nulla. La troveremmo vuota. Tutto quello che ci “serve”, adesso, lo troviamo conservato dentro i nostri telefonini. La realtà materiale di una volta, è diventata virtuale. Pace e bene.

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio