Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, sabato 27 giugno 2020 - Non sapevamo dove ci trovassimo. Per alcuni anni è stato così. Per tutti. Non sappiamo per quanto tempo, ma la totale assenza di coscienza per capire l’ambiente che ci circondava e noi chi fossimo, è stato un tempo relativamente lungo. Presi e lasciati da gente più o meno conosciuta. In braccio. Coccolati e rimproverati. Pianti e sorrisi all’interno di muri sicuramente amici, che a volte sono stati sempre quelli dalla nascita fino alla fine.  

Almeno che non ci sposassimo e la nostra vita avrebbe preso altre vie, altre casualità e un’altra casa. Che ci avrebbe protetto per anni, pochi o tanti: nessuno l’avrebbe saputo prima. Ma i muri più protettivi di tutti quelli conosciuti, sono quelli tra i quali siamo nati. È lì dentro che abbiamo imparato a parlare, scrivere, sorridere, accogliere o chiudere la porta in faccia a chi non ci meritava.  

Solidi. Duri. Bianchi come placente. Con incavi per metterci dentro quello che servisse per vivere, anche con poco. A volte senza finestre, ma solo un’apertura giusta per farci passare mobili semplici ma durevoli, erano sempre quelli. Sedie e tavolo per desinare non avevano rivali come durezza. Quando una sedia cadeva per terra faceva rumore: anche lei aveva la sua dignità e voleva che ogni tanto ce lo ricordassimo!

Il tavolo non era molto grande, a volte una “buffettola”, ma solida, prendeva posto al centro della casa, spesso era un monolocale. Dove entrando, con una sola occhiata si riusciva a capire la “dignità” di quella abitazione. Non solo i pochi mobili ti facevano capire “lo stato di famiglia”, ma anche quanta gente ci viveva lì dentro.

Erano tutti lì presenti e appena entrava qualcuno, visto per la prima volta, tutti si giravano. A guardarlo. Forse si temeva un’altra presenza, come se i già viventi fossero pochi… Sei-sette figli decenni fa era la norma, una persona in più perfino sconosciuta, avrebbe fatto preoccupare non poco i componenti di quella piccola comunità. Che non si limitava solo alla prole, ma c’erano anche i genitori, almeno due nonni e qualche zio/a in attesa di “sistemazione”. Tribù!   

Spesso dei fratelli venivano considerati padre e figlio, vista la differenza di età tra i due consanguinei. Erano in tanti!! Frotte di zii, nonni, bisnonni, spesso raccolti allo stesso tavolo o davanti allo stesso camino. E con la testa abbassata a “spezzechijà” qualcosa da masticare dallo stesso piatto, che era enorme, come un sole bianco di latta appena generato.     

 E intorno quadri di santi e defunti. Sembravano luoghi dove si svolgevano vite amene, idilliache, lontane dalla realtà. In Arcadia.

Dei piccoli paradisi terrestri racchiusi dentro quattro muri. Dove non c’erano peccati originali da scontare, ma solo fatica e sacrifici, sperando di vedere la luce del giorno dopo. Oltre al tavolo, l’altro mobile che era il sovrano della casa era il letto: spesso molto alto, sotto dovevano metterci un po’ di tutto, compreso piccoli animali da cortile.

Il letto era il luogo sacro per eccellenza: era lì che si “decideva” la nascita di nuove vite, si capiva cosa sarebbe stato di quella famiglia, in senso di quantità come forza lavoro. I figli venivano considerati soprattutto come braccia da mettere a disposizione per il benessere dell’intero nucleo famigliare. La nascita di una bambina veniva considerata come una decisione del fato, per allietare, almeno una, la vecchiaia dei genitori: era il bastone della vecchiaia, e non si doveva sposare!! 

 A volte capitava che a una delle figlie, se fossero tante, le veniva impedito il matrimonio: i genitori avrebbero avuto bisogno di lei quando l’età era ormai avanzata. Come vestali di una società contadina che nulla aveva da invidiare a quelle dell’antica Roma, che dovevano tenere sempre acceso il fuoco sacro nel tempio dedicato alla dea Vesta. Compito ingrato al quale, non si poteva sfuggire.

I quadri appesi alle pareti erano enormi, pesanti, severi: ti guardavano appena entravi in casa. Come dire: qui c’è del sacro e tutto quello che succederà, sarà voluto da dio! “Nacasciat”, quadri enormi dalla cornice spessa, nelle case dei ricchi le cornici erano dorate. Che pesavano come un piccolo comò. I santi posizionati come sentinelle che “facevano a gara” a chi riuscisse a proteggere meglio quella casa. La devozione era tanta, c’era ben poco in cui sperare in tempi quando si viveva cercando di vedere crescere i figli, quando la mortalità infantile era altissima. C’era almeno un bambino o neonato defunto in quasi tutte le famiglie.  

E dove non ci arrivavano i santi, “ci pensavano” i defunti. Erano foto in bianco e nero, tappezzavano i muri, ma erano appoggiati anche “sop li culunnett”. A volte la foto del defunto veniva scattata sul letto di morte, con i figli intorno al corpo senza vita del genitore, come si faceva in epoca Vittoriana, quando i defunti dei nobili venivano “impagliati” e adagiati su sedie e poltrone in atteggiamenti da vivi. Ma non lo erano.

Le foto dei nostri parenti defunti, di nobile avevano solo la disperazione: sapendo che un’altra pedina fondamentale di quella famiglia non c’era più, e spesso tanti figli piccoli rimanevano senza un genitore: disgrazia su disgrazia. 

Era una bella lotta quando si doveva pregare: ci si rivolgeva prima ai santi, e poi per rafforzare le nostre preghiere, si andava verso le foto dei cari defunti. I quadri dei santi spesso non erano rivolti verso il “richiedente”, non ti guardavano in faccia. Invece le foto dei cari estinti erano tutte dirette verso chi avevano di fronte, come giudici inflessibili, “gente” che ormai aveva saputo tutto del perché esistono le nuvole, e come esistono le stelle. In vita non avrebbero potuto… 

Queste case si trovano “In Arcadia”. Sono rimaste pochissime e non sempre sono abitate. Lì dentro il chiasso non può entrare, e nemmeno le parole di oggi. Sono muri che capiscono solo linguaggi usati tempo prima. Anche le troppe luci che ci permettono di vivere comodamente, lì dentro non sono ben accette: farebbero svanire la percezione di vivere in un luogo che pochissimi riescono ad apprezzare.  

Come pochissimi sono quelli che sono ancora con noi e lì dentro hanno lasciato memoria di vite mai uguali.

Questo articolo è stato possibile grazie ad alcune foto scattate da Luigi Giuliani che ha ritratto questa abitazione in zona “Chiazza d sop”.

Mario Ciro Ciavarella Aurelio