Mario Ciro Ciavarella Aurelio
San Marco in Lamis, sabato 20 giugno 2020 - Ti guardava fisso come dire: “Ma era così necessario?” Per te sì, lo era. Anche perchè i figli che non stavano più dentro quella casa, non li sentivi da tempo. E per sapere come stavano bisognava recarsi nell’abitazione di fronte, dove c’era un tuo amico che ti chiamava di corsa: tuo figlio voleva dirti una cosa importante. Per telefono.
E si correva. Anche se c’erano pochi metri da percorrere da casa tua a quella dell’amico, che il telefono in casa ce l’aveva da tempo. La cornetta era appoggiata a fianco del telefono e tu la prendevi: “Pronto?” e si iniziava a parlare, anche per tantissimi minuti. Durante i quali si raccontava tutto quello che era successo dall’ultima telefonata, fatta quasi sempre una settimana prima.
L’unità di tempo delle telefonate era una settimana. Quasi sempre il sabato pomeriggio si parlava con il parente più o meno lontano. E allora si faceva il rendiconto degli ultimi sette giorni: tutto a posto oppure no, sono finiti i soldi oppure ci sono ancora, sto bene oppure sto male, stiamo ancora insieme oppure abbiamo litigato. C’erano solo due possibilità in ogni condizione umana dettata al telefono: sì o no!! Va tutto bene o va tutto male!!
Ma quando il telefono ce l’avevamo anche noi, la prima telefonata non arrivava subito. Stano. Ma poi, subito dopo la prima, le telefonate erano quotidiane: almeno una al giorno, nel bene e nel male.
Quando squillava il telefono in tarda serata o addirittura di notte, prima di rispondere bisognava farsi il segno della croce. Non erano orari ammissibili, tempo fa, per fare o ricevere telefonate. Però erano collegamenti telefonici assolutamente necessari, non si poteva aspettare il giorno dopo per comunicare quella notizia. La cornetta veniva alzata lentamente, e poi si rispondeva: “Pronto”, detto sottovoce. Quasi senza sentire la propria voce.
“Pronto”. Detto quasi come sottomissione, come dire: dimmi tutto quello che vuoi, sono pronto a tutto. Quasi con il capo chinato, anche di lato, come fanno i cani quando danno il collo ai loro aggressori, contro i quali hanno perso la lotta appena conclusa. Si prefigurava, davanti all’apparecchio telefonico, quasi una Pietà, senza un uomo crocifisso, ma solo parole che potevano essere dure come pietre, che cadono dall’alto, sfuggite a qualcuno che non si cura del resto dell’umanità.
Al primo “Pronto” notturno, difficilmente si riceveva una risposta, ma bisognava ripetere: “Pronto”, e poi si sentiva qualcuno dall’altra parte del telefono che ti rispondeva (finalmente): “Casa Rossi?”. “Come?”. “Sto parlando con la famiglia Rossi?”. “No, avete sbagliato numero”. “Scusate”.
Fine della telefonata fuori orario. La cornetta rimaneva ancora per qualche secondo sull’orecchio, per essere sicuri che il telefonista notturno non ci ripensasse e volesse continuare a parlare, magari dicendo il cognome giusto della tua famiglia. Ma non c’era un ripensamento. Meno male…
Cornetta abbassata e sguardo fisso sul cerchio che conteneva tutti i numeri sistemati in circolo: tanti occhi che non abbassavano mai lo sguardo, ma che fissavano il proprietario del telefono, anche da lontano. E allora si aspettava ancora la prima telefonata.
Si alzava il telefono per vedere se si fosse surriscaldato l’apparecchio: no, non scotta. Si toccava il filo per vedere se fosse collegato alla presa telefonica: è collegato. Si alzava e abbassava la cornetta per ascoltare se c’era sempre il “tuuu, tuuu…” come segnale di telefono libero e funzionante: tutto era in regola. Allora sediamoci e aspettiamo.
Nei primi giorni di vita del nostro telefono di casa, nessuna telefonata. Che delusione: quasi quasi si chiamava la Sip (prima della Tim) per farsi staccare il telefono in casa (adesso si dice: fisso). Non ricordo quanto si pagasse il tutto: collegamento e telefonate fatte. Forse non tanto, il costo delle singole telefonate veniva calcolato sulla durata, ma se si parlava telefonando ai numeri del proprio distretto telefonico (da noi 0882) che comprendeva San Marco, San Giovanni, San Severo, in questo caso il costo era di un gettone, 200 lire. Ma se si telefonasse fuori distretto, il costo lievitava. Ma non erano spese eccessive.
Uno squillo. Ancora un altro squillo. Un terzo squillo. Facciamolo squillare ancora, per sicurezza. Sì, era il nostro telefono che funzionava: ce l’avevano dato vivo! Non era rotto! Funzionante! E adesso si deve rispondere! “Pronto?”
C’era vita nel cavo telefonico: due voci si incontravano lì dentro, all’interno di quel cavo di colore grigio di un certo spessore. Lo spessore era importante: dovevano entrarci anche le voci più possenti, quasi tenorili. E adesso per la prima volta quell’oggetto grigio, pesante, autoritario, gigante, severo aveva emesso il primo vagito. La prima telefonata al nostro telefono!! Quasi come il primo bacio, il primo figlio, il primo 10 a scuola, il primo ombrello perso, il primo giorno di lavoro, il primo giorno di vita!!
Era un traguardo che non tutti raggiungevano “ragionevolmente”, nel senso che si doveva avere il telefono, il prima possibile!! E quando questo avveniva, la prima telefonata era quella che rimaneva in mente. E la si raccontava a tutti. La voce dall’altra parte che era diversa da come quando la si ascoltava “dal vivo”. Di quanto potesse essere più bella o più brutta.
La prima telefonata, se ci fosse stata la possibilità di registrarla, sarebbe stato fatto, senza dubbi. E conservata. In un file o attaccata su un album fotografico, come una foto che, anche se sbiadisce nel tempo, conserva tutte le sue sfumature.
Le voci nel tempo difficilmente cambiano, a differenza delle fisionomie. Rimangono sempre quelle. Le risate e le poche gioie vengono espresse dalle voci. E il telefono ha solo amplificato tutto questo. Facendo partecipi delle nostre sensazioni anche quelli che ci conoscono, e non incontriamo da tempo.
Soundtrack: “Piange il telefono” - Domenico Modugno
Film recommended: “Telefoni bianchi” di Dino Risi
Book recommended: “Favole al telefono” di Gianni Rodari
Mario Ciro Ciavarella Aurelio