di Luigi Ciavarella
San Marco in Lamis, martedì 14 novembre 2017 - Tra le rock band che abbiamo da subito imparato a conoscere duranti i nostri primi anni di apprendistato del rock senza dubbio gli Uriah Heep sono stati quelli che meglio ci hanno affascinato. Il motivo è presto detto. Il loro hard rock, rispetto ad altri loro contemporanei, era contaminato da litri di miscela pop con seducenti melodie che interagivano, grazie alla bella voce di David Byron, nel tessuto spettacolare della loro musica.
Naturalmente non era il solo ma la sua voce, diversa da tutti gli altri protagonisti della scena rock inglese in quel momento (Plant, Gillan e Osborne per esempio) aveva un non so che di personale che dava il timbro giusto all’intera musica del gruppo inglese. Non secondario il suo ruolo di frontman, ma questo era comune a molte altre band del periodo. Naturalmente la voce non era l’unico elemento caratterizzante del suono della band. D’altra parte il gruppo si fondava su tre pilastri: il chitarrista Mick Box e il tastierista Ken Hensley, oltre al già citato David Byron.
Tutti e tre, ciascuno proveniente da esperienze avute nell’ambito del rock underground inglese di metà sessanta, fondano gli Uriah Heep agli albori dei settanta debuttando subito con un album dai contorni inquietanti, almeno a giudicare dalla polverosa copertina (“.. Very Eavy …Very ‘Umble”). In realtà il disco denuncia una certa immaturità peraltro comune a molte altre band inglesi di scuola hardrock, in fondo la loro etichetta, la Vertigo Records (sottomarca della Polygram nata per accogliere la forte richiesta di spazi proveniente dal sottosuolo musicale inglese), insieme a molte altre del periodo,hanno il compito di fornire uno sbocco alle nuove leve del rock.
Dal mazzo dei brani si salvano poche cose prima fra tutti il brano Gypsy che avrà i suoi momenti di gloria duranti i tanti live che la band effettuerà in tutto il mondo. La critica sarà feroce nei loro confronti. “Semmai questa band avrà successo” – scrive un critico americano – “mi suiciderò!” oppure, un altro giornalista italiano, ancora più offensivo, dirà di loro “Usati come anticoncezionali funzionano bene”, insomma si avverte un clima abbastanza ostile, pesante e inspiegabile, che accompagna il loro debutto. Tuttavia la band avrà una lunga vita artistica e otterrà finalmente il grande successo tra le due sponde dell’Atlantico a partire dal terzo titolo “Look At Yourself”, pubblicato nel 1971, con qualche puntata anche in Italia. L’album posticipa “Salisbury”, il lavoro che ha dato loro una prospettiva di suono spinto in più direzioni (finanche di taglio progressivo vedi la monumentale suite omonima) che anticipa “Demon and Wizard”, con la suggestiva copertina disegnata da Roger Dean, dove trovano spazio le canzoni più belle della band inglese : The Wizard, Easy Livin’, Sweet Lorraine, etc, dalle melodie straripanti. Tutto questo accanto ad un suono maturato sulla distanza che assimila la loro musica a quella di altre band importanti del momento: Deep Purple, Black Sabbath, quest’ultimi a causa di alcuni aspetti tenebrosi ed esoterici comuni, anche se per gli Uriah Heep fu più che altro una finzione scenica.
D’altronde il loro nome prende spunto dall’ignobile personaggio letterario creato da Charles Dickens nel David Copperfield, (descritto dal celebre romanziere inglese come “brutto e repellente, alto, magro e pallido con i capelli rossi e lo sguardo spento …”) una intestazione curiosa suggerito dal loro primo manager, Gerry Bron. Tuttavia almeno sino a “Wonderworld” nel 1974, gli Uriah Heep produrranno una musica di buon livello dopodiché la loro discografia si disperderà in tanti rivoli dove al centro ci sarà l’azione live, l’impatto necessario che alimenterà una leggenda che ancora oggi trova corrispondenze in ogni parte del mondo attraverso la ristampa dei loro dischi migliori in versioni compatte e lussuose che fanno la gioia dei loro fans, che sono tanti, specialmente in Italia.
a cura di Luigi Ciavarella