Mario Ciro Ciavarella
San Marco in Lamis, mercoledì 12 aprile 2017 - Il nome, a volte, segna il destino degli uomini. Un nome cambiato, in questo caso. Un nome e un padre non riconosciuto come tale e che si è voluti cancellare per non portarsi dietro l’ombra ingombrante di una persona mai sentita come genitore. Antonio Laccabue accusò il suo patrigno come l’assassino di sua madre e dei suoi tre fratelli per avvelenamento. Poi, ci si mette anche una buona dose di pazzia, chiamiamola così per semplificare, a complicare le cose, e alla fine la genialità che è dentro alcuni di noi, salta fuori. Ed è automatico che verrà fuori, l’arte.
L’arte non è di tutti, ma è soprattutto di quelli che vivono vite diverse dagli altri. Dove la ragione e l’ovvio non trovano posto. Dove la vita non è lineare come vogliamo che sia. Dove la mente supera la convenzione umana e va a stamparsi in luoghi che non esistono nella logica del mondo.
Dove Antonio Laccabue ha vissuto. Non in un posto chiamato Mondo, ma in un luogo che solo la sua mente poteva definire. Mente, che ha subito traumi che pochissimi possono “vantarsi” di avere vissuto sulla propria pelle.
Antonio Laccabue è esistito fino a 43 anni, poi è nato Antonio Ligabue, pittore. Così come viene riconosciuto universalmente. Come la pittura naif ha preso Ligabue sottobraccio per portarlo verso paesaggi e visi che difficilmente dimenticheremo.
Ligabue è il pittore naif per eccellenza. Autodidatta, privo di qualsiasi nozione elementare di pittura, povero, anzi poverissimo, prospettiva nelle sue opere inesistente, proporzione anch’essa mai ottenuta, temi trattati dall’artista erano la società muta e assoggettata alla natura. Un’arte primitiva, si sentiva che nelle sue opere mancava solo la parete di una caverna, come supporto per sostituire le tele.
Se Ligabue fosse nato nel Paleolitico avrebbe dipinto la Cappella Sistina in una grotta!! E quel luogo sacro l’avrebbe riempito con figure di galline, maiali, asini, contadini, il tutto al posto di angeli e demoni. Una rappresentazione sacra e profana allo stesso tempo. Nella mente dei pazzi la sacralità non è vista come religione, ma come natura che non cede il posto agli umani, e se lo fa è una concessione molto limitata.
Ligabue dipingeva soprattutto animali, lui stesso diceva spesso che si sentiva un animale. Quando vedeva una mucca, lui sentiva una specie di reincarnazione “in diretta”: non aveva bisogno di morire per reincarnarsi in un altro essere vivente, ma entrava con il suo corpo e la sua mente, dentro la pelle di quell’animale.
Allo stesso modo la sua pittura: compenetrava l’essenza del soggetto raffigurata. Quando copiava un animale che vedeva in campagna, faceva il suo verso, cercava quasi di comunicare con lui, e con i pennelli e i colori cercava di possederlo. Forse anche carnalmente.
Antonio Ligabue ebbe la fortuna di incontrare sulla sua strada gente esperta di arte, come Renato Marino Mazzacurati, Andrea Mozzali e Severo Boschi, tutta gente di arte e comunicazione, che gli vollero bene e lo fecero conoscere da tutti.
Alla morte di Ligabue avvenuta nel 1965, le retrospettive si sprecavano e la ricerca delle sue opere disperse nel bolognese divenne spasmodica. Quando si ammira un’opera di Ligabue si rimane perplessi per come rappresenti la realtà. Molto diversa da quella che noi vediamo.
Il senso della vita viene raffigurato in un modo “strano”: o sono troppo grandi gli animali o troppo piccoli gli umani. Da Ligabue gli animali venivano sempre raffigurati più grandi degli uomini.
Mario Ciro Ciavarella