Giuseppe Soccio

San Marco in Lamis, lunedì 24 ottobre 2016 -  Gentile Redazione, leggendo un articolo de “Il Foglio quotidiano” (giornale fondato da Giuliano Ferrara che merita di essere seguito per il suo “politicamente scorretto”) ho pensato alla sorte del nostro Liceo Classico, tema che qualcuno affronta solo nel periodo delle iscrizioni scolastiche per le difficoltà che si incontrano a formare anche una sola classe che tenga in vita questo indirizzo di studi.

 La scomparsa del “Classico” a San Marco, però, ove si verificasse, non sarà semplicemente un incremento della somma delle istituzioni perdute dalla nostra comunità cittadina: sarà molto di più, in senso negativo purtroppo. Per questo sarebbe utile aprire una discussione e promuovere iniziative adeguate prima di trovarsi di fronte all’irrimediabile. A San Marco ci sono, oltre alle scuole naturalmente, tante istituzioni e associazioni culturali, anche giovanili, che potrebbero impegnarsi in tale dibattito, che ha sicuramente aspetti avvincenti come il tema delle “due culture”, il rapporto tra discipline umanistiche e scientifiche, il valore formativo degli studi superiori e le opportunità di inserimento nel mondo del lavoro, ecc.

La discussione, poi, servirebbe anche alle istituzioni scolastiche per porre il problema dell’orientamento in termini meno generici di “open day” di routine, senz’anima. Per questo propongo all’attenzione di tutti, allegandolo, l’articolo del “Foglio” che mi ha stimolato. Al suo interno ci sono anche dei link per approfondimenti. Consiglio di collegarsi alla Task Force per il Classico, che, a sua volta, contiene il link ad un breve saggio di Massimo Bruno dal titolo: Il “Liceo Classico”: problemi e prospettive, che affronta anche i temi della didattica delle lingue classiche.

Un altro articolo da meditare, che pure allego, è quello del matematico e storico della scienza di recente scomparso Giorgio Israel: Perché se muore il liceo classico muore il paese.

Cordiali saluti.

Giuseppe Soccio

 

Perché se muore il liceo classico muore il paese

 Da un lato un boom di iscritti ai test d’ingresso al Politecnico di Milano e una propensione per le lauree di ingegneria o direttamente correlate a una professione definita; dall’altro, un declino delle iscrizioni ai licei, in particolar modo al liceo classico. Alcuni commenti salutano questi dati come espressione di una tendenza positiva verso la “laurea utile”, verso l’abbandono delle propensioni “generaliste”, verso una preparazione corrispondente alle figure richieste dalle aziende. A noi sembra invece che la valutazione vada divisa: ottima è la prima tendenza, perché la rivalutazione delle professioni ingegneristiche e tecnologiche anche a livello della formazione professionale, è essenziale per un paese in via di declino industriale; pessima è la seconda tendenza per motivi che dovrebbe essere superfluo dire. Come può un paese che possiede più della metà dei beni culturali, artistici, architettonici del mondo non preoccuparsi di coltivare un ceto di persone di altissima competenza capace di valorizzare quel patrimonio che, se non altro, ha un enorme potenziale economico? Si badi bene: non si tratta solo della necessità di formare un esercito di archeologi, di restauratori, di persone all’altezza di gestire musei e l’immenso, quando degradato e depredato, patrimonio librario del paese. Si tratta di non disperdere la memoria dell’identità storico-culturale italiana. Come è possibile pensare che il patrimonio culturale del paese possa essere preservato se quasi nessuno conosce più neanche i nomi degli architetti, dei pittori, dei letterati, degli scienziati che l’hanno costruito e finisce col considerarlo un irriconoscibile ciarpame? Il disprezzo dell’umanesimo (anche sul fronte della cultura scientifica!) è la via per il sicuro declino.

Ci potremmo fermare qui, ma c’è di peggio. A chi ha sempre difeso le assurde accuse di stampo idealistico alle scienze esatte non può piacere il disprezzo simmetrico per l’“altra cultura” tacciata di non fornire né conoscenze né saperi pratici, insomma di essere un cumulo di prodotti inutili e di chiacchiere di dubbio valore. La sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa. Non a caso stiamo perdendo il senso della parola “ricerca”, ormai sinonimo di “innovazione tecnologica”.

Invece, lo straordinario successo della scienza occidentale è stato fondare la tecnica sulla scienza, creando la “tecnologia”. Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». Oggi questo è più vero di ieri. Giorni fa un illustre ingegnere osservava che nel contesto odierno, sempre più complesso e ricco di interrelazioni, servono persone di formazione vasta e aperta, in breve di formazione umanistica, che spesso solo il liceo classico può dare. L’innovazione tecnologica richiede una cultura vasta capace di attingere ai campi più disparati, altro che specializzazione. Mi ha profondamente colpito l’osservazione che ho sentito da diversi ingegneri che le automobili di oggi sono, in fondo, ancora “bricolage” del modello originario, mentre occorrerebbe ripensarne uno nuovo non soltanto in termini tecnici stretti, ma tenendo conto del senso del “trasporto” nella realtà economico-sociale di oggi. Come può farlo questo chi non sappia di economia, di sociologia, di storia? In un’università tecnologica francese mi raccontarono: «Un’importante ditta automobilistica ci chiede come migliorare una difficoltà di carburazione. Un ricercatore elabora un modello e conclude che occorre aumentare di tot millimetri il diametro di un tubo. Cosa di veramente nuovo può venire da questo?».

È comprensibile che le imprese abbiano fretta e desiderino un sistema dell’istruzione funzionale alle formazione di addetti. Ma ciò può portare solo al disastro. Nè vale produrre l’esempio di paesi che imboccano questa via: qui il mal comune non è mezzo gaudio. Tanto meno può esserlo in un paese che non solo possiede gran parte del patrimonio culturale e artistico mondiale, ma ha una grande tradizione: aver saputo sintetizzare con successo, dal periodo postunitario, visione umanistica, scientifica e tecnologica. Di tale sintesi è stata espressione l’ingegneria italiana, costellata di grandi personalità che non erano solo “pratici” di prim’ordine, ma scienziati e umanisti. Tale fu Luigi Cremona, matematico puro, fondatore della Scuola di Ingegneria e ministro dell’istruzione. Tale fu Francesco Brioschi. Tale fu Vilfredo Pareto ingegnere ferroviario, imprenditore, e grande teorico dell’economia e della sociologia. Scienziato umanista fu il creatore della plastica Giulio Natta (diplomato in un liceo classico). Questa è la tradizione cui riallacciarsi, invece di credere che sia un progresso distruggere la formazione umanistica classica, proprio mentre viene riscoperta in paesi privi delle nostre tradizioni.

Abbiamo bisogno di persone di ampia formazione e capaci di scelte autonome, e non di polli di batteria formati per una sola funzione che, col procedere tumultuoso della tecnologia, potrebbe diventare obsoleta nel giro di poco tempo. Per formare persone del genere serve anche il liceo classico. Chi gioisce per il suo declino ride mentre è segato il ramo su cui sta seduto.

(Il Mattino e Il Messaggero, 25 agosto 2013)

 

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