Mario Ciro Ciavarella

San Marco in Lamis, mercoledì 29 giugno 2016 -  Nel 1983 facilmente si poteva finire in carcere. Veramente anche molto prima c’era questo rischio, un po’ più difficile negli anni successivi. Poichè qualcosa iniziava a cambiare.     Bastava un nonnulla per vedersi aprire davanti ai propri occhi il cancello di un carcere. E per uscirne bisognava fare i salti mortali o trovare un magistrato, come legge prevede, che mettesse ordine a varie sentenze precedenti.

  Era sufficiente che un semplice cittadino, meglio se pregiudicato, ti accusasse di una qualsiasi reato, che quasi immediatamente ti venivano a prendere dove ti trovavi e poi a te l’onere e l’onore di dimostrare di essere una persona perbene. Portando tu le prove della tua innocenza!!!???

 È quello che è successo proprio quell‘anno ad Enzo Tortora, presentatore e scrittore, famosissimo per essere uno dei “padri” della televisione italiana.

 Si è ritrovato dall’oggi al domani con delle manette ai polsi, preso nel cuore della note in un albergo di Napoli e portato in carcere. Ne seguì una vicenda complessa e dolorosissima, terminata con l’assoluzione dopo anni. Le accuse erano: detenzione e spaccio di droga, e affiliazione alla camorra!!!

 Il tutto poichè il giornalista televisivo venne accusato da personaggi come Gianni Melluso, Giovanni Pandico e Pasquale Barra, tutti esponenti di primo piano della Nuova Camorra Organizzata (mica chierichetti). Senza uno straccio di prova!!!

 Ed è uscito da pochi giorni il libro scritto proprio da Enzo Tortora, “Lettere a Francesca”, epistolario inviato a Francesca Scopelliti, compagna dello scrittore.

 Dove racconta per 210 giorni le condizioni miserevoli in cui erano costretti a vivere i carcerati, non solo lui. Quelle condizioni lo portarono a morire nel 1988.

 È difficile scrivere lettere d’amore “contaminate” di ingiustizie sociali: baci e abbracci all’amata, con denunce di come possono “vivere 7 carcerati in 10 metri di cella”.

 È un modo curioso e ingegnoso di raccontare una parte della propria vita dicendo al mondo che quello che si sta facendo è sbagliato. Dicendo che i magistrati che sbagliano è giusto che paghino.

 

I MAGISTRATI CHE SBAGLIANO E’ GIUSTO CHE PAGHINO!!!!

 In queste 45 lettere d’amore verso la sua Francesca, e di odio verso una società italiana ancora lontana fin troppo dalla Giustizia vera e propria, è una summa di sentimenti e atti di denuncia sociale. Ed è giusto che questo libro venga letto da tutti. Iniziando dai politici (che fanno le leggi) e dai magistrati che le “interpretano”.

 Un filo rosso lega le lettere di Tortora con la lontananza della sua donna: la cella. La cella del carcere di Tortora non sembra essere un muro invalicabile, ma uno strano filtro attraverso il quale passano sussurri e grida diretti al mondo, a quello degli uomini e a quello di dio. Il quale viene più volte chiamato in causa in queste lettere per far sentire la sua voce.

 La cella di Tortora è come se fosse un altoparlante attraverso il quale le frasi scritte su queste lettere debbano essere amplificate per uscire fuori “dalle logiche della giustizia degli uomini” e arrivare dove poche persone si spingono e si sforzano di arrivare: nella coscienza dell’Uomo.

 La cella di Tortora e idealmente la stanza della sua donna Francesca sono un tutt’uno: i due stanno insieme, è come se lui e lei stessero scrivendo e leggendo quelle lettere nello stesso istante, scrittura e lettura delle 45 lettere fatte all’unisono.

 Come un coro di tragedie greche. Dove la disperazione e la poca speranza che i mali del mondo vengano risolti, sono evidenziati dalla non-logica esistenza dell’Uomo sulla terra.

 Spesso si scrive per dire: vedete che c’è poco da stare allegri, è tutto sbagliato quello che è stato fatto finora. È una scrittura che mette nero su bianco l’impossibilità e l’incapacità dell’Uomo di essere superiore.

 Il bello è che non ce ne rendiamo conto. Oppure ce ne rendiamo conto della nostra non-superiorità, ma facciamo finta che non sia così.

 L’importante è che alla fine ci sia una condanna, che ci sia la parola fine su tutto, che ci sia comunque un colpevole, che ci sia un applauso finale.

 E che ci sia qualcuno da omaggiare. In questo caso Enzo Tortora. Che ci ricorda a distanza di oltre 30 anni che l’amore per una donna e quello per la giustizia degli uomini possono andare di pari passo.

 (E occupare lo stesso rigo in una lettera…)

 

                                                         Mario Ciro Ciavarella