Antonio Del Vecchio
Rignano Garganico, giovedì 11 febbraio 2021 - Il San Valentino (14 febbraio) riporta alla memoria di uomini e donne la prima esperienza amorosa ossia il primo bacio o giù di lì, a secondo della generazione e dell’epoca in cui maturò l’episodio. Questo accadde anche ad Ottavio, il protagonista del romanzo di chi scrive da poco presentato, ma non ancora in vetrina per via della pandemia.
Ecco il racconto, rettificato nel luogo e nell’accadimento: “Ninètte culavrètte - così s’intitola il capitolo - va lu zite e ce l’ha nnètte!” (Ninetta zozzona, va il fidanzato e la pulisce!) ed ancora, “Sérafine, quante si fine”! ecc.. Erano alcuni dei tanti motti e modi di dire per prendere in giro una ragazza, declinando il suo nome. Tanto vale anche per i maschi e sui tanti altri nomi. Talvolta, te lo portavi addosso per tutta la vita, anche quando non eri più una ragazzina. E’ quanto accadde una domenica di tanti anni fa nel corso principale del paese, per l’occasione affollato dal bel sesso di ritorno dalla Santa Messa festiva. Era l’occasione per i giovani di “far domanda” (così si diceva quando volevi fidanzarti con qualcuna, con o senza una letterina di accompagnamento o previo l’amica più stretta della prescelta).
Non solo, ma era l’unico momento della giornata per incontrare l’innamorata; il resto funzionava tramite appuntamento di solito presso qualche casa amica o , di sera, con il pretesto della morandiana“fatti mandare dalla mamma…” in luoghi appartati o disabitati, dove non ci passava neppure un cane (Zia Monica, la Strettola, Bisacciare, La Ripa, Varrèdde, ecc.). Questa volta, il motto di cui sopra era stato lanciato dal ragazzo, per ricordare alla sua fidanzata Graziella, che era in compagnia, appunto della “Ninetta”, l’appuntamento in precedenza fissato. Per cui l’interessata, civettuola ed allegra, non si sa se lusingata o meno dall’apprezzamento diretto alla sua amica, non se la prese e tirò dritta per la sua strada, seguita prima con la coda dell’occhio e poi fisicamente dal suo uomo.
Ad un certo punto Graziella, salutata l’amica Ninetta, raggiunse in pochi minuti, la casa dell’appuntamento, l’ultima della strada che affacciava direttamente sulla Ripa – Belvedere, da dove si ammirava lo sconfinato Tavoliere, i monti del subappennino, e persino le cime innevate della Maiella. Ad accoglierla c’era Nina, giovane anche lei, ma maggiore di età di pochi anni, che, dopo averla abbracciata, le indicò il luogo del “parlatorio”, ubicato nella contigua stanza dietro l’armadio ad una luce (un solo specchio ed anta); lo stesso era affiancato da un letto matrimoniale bene acconciato, quasi che nessuno l’avesse mai usato. Quel giorno, la mamma della ospitante non c’era, avendo seguito il marito nella campagna sottostante, dove avevano un modesto fondo di loro proprietà, con casetta -ricovero all’occorrenza.
A quei tempi la miseria era estrema, e tutti si arrangiavano, come potevano, per garantirsi un pezzo di pane quotidiano e mantenere qualche figlia agli studi, come in questo caso. Nina, infatti, donna fatta e prosperosa da un pezzo, frequentava con qualche anno di ritardo la IV classe ginnasiale. Subito dopo arrivò anche il giovane che, invitato, raggiunse in un attimo il luogo dove era seduta la novella fidanzata, prendendo posto di fronte. Intanto, la padrona di casa, coll’intento di lasciare liberi i due innamorati, da poco, si era allontanata, scendendo giù al primo piano attraverso una sgangherata scala , col pretesto di accudire le galline, stipate in un gabbione pure di legno, che di tanto in tanto lo si apriva, per fare uscire i volatili all’esterno tramite il secondo ingresso indipendente, rivolto pure al belvedere.
In prossimità del fabbricato c’era un fabbricato dalla forma tozza detto grotta dello “skazzamurridde”. Di sera serviva come luogo di appuntamento. Nelle prime ore pomeridiane, invece, quando in giro non c’era nessuno, funzionava da luogo porno. Infatti, bastava versare cinque lire ad un malandrino e più in là una precoce signorina accovacciata davanti ad una sorta di gattaiola si lasciava guardare, senza essere vista, la sua intimità., dando e provando piacere. Talvolta la fila da superare si faceva sempre più lunga. Ad un certo punto la voce dello strano viavai arrivò agli adulti e forse anche ai genitori della malcapitata e l’esperimento così come era sorto sparì di colpo. Del nome della ragazza si seppe solo più tardi, ma nessuno ebbe il coraggio di incriminarla o di giudicarla negativamente.
Semmai provarono gratitudine, perché li aveva liberati dal tabù del sesso, prima ancora dell’avvento della rivoluzione in questo ed in altri campi della vita giovanile, che ne seguì di lì a poco. Gli adolescenti acquisivano notizie di sesso anche in modo indiretto. Ad esserne maestri erano i maggiorenni, quelli che allo scoccare del diciottesimo anno, visitavano le cosiddette case chiuse e raccontavano a mo’ di vanto la loro prima esperienza di connubio. Fortunatamente con la legge Merlin tutto cambiò e la donna si liberò dalla schiavitù dello Stato. Una volta, un mio compagno di scuola, assai sviluppato nel fisico, nonostante avesse appena sedici anni, si intruppò in una comitiva di amici maggiorenni e riuscì ad entrare nella palazzina dalle persiane verdi del Capoluogo. Lì lo prese a cuore da subito una matriarca che, condottolo in camera, gli insegnò e praticò delicatamente l’arte dell’amore.
Lui ne restò conquistato, tanto da rinunciare ad ogni fidanzamento. Puntualmente ci diceva, non voglio donne normali, voglio sposare una di quelle. Peccato che le case chiusero nel 1958 in virtù della Legge Merlin I due innamorati, intanto, tenendosi stretti per mano, avevano cominciato a parlarsi, raccontando i loro sogni , intervallati da frasi e fatti apparentemente banali, ma intensi di sentimento e calore. Il tempo volava, ma essi non si stancavano mai di parlare e di smettere di guardarsi fissi negli occhi. Ad un certo punto, lei avvicinò il suo viso rosso acceso ad un palmo da lui, che per poco non lo ‘scansò’, forse sorpreso dall’iniziativa femminile e nel contempo dall’innato senso di rispetto per la donna che, per le comunità di quel tempo, quasi tutte patriarcali e matriarcali, era sacrosanto e praticato. Ma l’investito si riprese subito e l’ addentò anche lui, per modo di dire, posando le sue labbra su quelle di lei.
E per alcuni minuti le stesse rimasero appiccicate, anzi incollate, mentre i loro corpi stretti fremevano a più non posso posseduti da uno strano e piacevole desiderio. A questo punto, i discorsi cessarono e le uniche parole sussurrate erano “Ti amo e ti voglio…Starò sempre con te sino all’eternità”. Sarebbero ritornati a baciarsi, se non che furono interrotti dalla voce di Nina che pensò bene di risalire, sospinta dal timore che qualcuno si affacciasse alla porta a vetri (di solito sempre aperta). Così si consumò il primo incontro d’amore tra Graziella e il suo innamorato. Un amore suggellato dal primo bacio. Si erano conosciuti qualche settimana prima nel predetto corso principale. Lui le “fece domanda” (così si faceva allora) per conto di un amico stretto. Lei rispose di sì, non all’amico in parola, ma allo stesso latore.
Non si sa se per frainteso o per libera scelta. E così che nacque questa storia d’amore che durò più di un anno, sino a quando lei, completate le medie, fu costretta a seguire i genitori al Nord. Fu un amore semplice ed avvertito, fatto di sguardi intensi e calamitosi, di saltuari abbracci e di furtivi baci, come quello accennato poco fa, con l’unica conseguenza di una bocciatura a scuola, lei alle medie e lui al liceo. Gli anni passarono. Lei mise su famiglia. Qualche anno dopo ne ripeté l’esempio anche lui, ma il ricordo del “primo bacio” , quello accennato all’inizio, restò incancellabile nella loro memoria e lo sarà per sempre fino alla fine dei loro giorni.