Antonio Del Veccchio
San Marco in Lamis, domenica 24 gennaio 2021 - Ero in quarta ginnasiale quando capitò il fatto curioso di cui sto per raccontare. Fatto che a sol pensiero ci fa ridere a crepapelle ancor oggi, nonostante i quasi ottant’anni (lui) e passa (di pochi giorni io). La classe, assieme alla quinta maschile, era alloggiata al secondo piano di uno stabile monolocale di Via della Vittoria, mentre la sede centrale, comprensiva del resto degli alunni e di quelli del triennio del Liceo Classico “Pietro Giannone”, si trovava a pochi passi, ospitata in un palazzotto, il cui accesso al secondo piano, solo a guardarlo dava i brividi.
Infatti, era servito da una scalinata ripida a rompicollo per davvero- Non a caso da lì era caduto più di un alunno e qualche professore.Noi, in veste di adolescenti cresciuti, ci affacciavamo spesso all’ingresso del fabbricato, specie all’inizio, quando la marea degli studenti si affrettava a salire per trovarsi a lezione all’orario giusto. Ci andavamo, perché all’assalto ci provavano pure tante belle ragazze che, salendo, lasciavano involontariamente intravedere le loro gambe sode su fino all’indumento intimo.
A quel tempo tutte indossavano gonne di terital più o meno a campana. Bastava un gradino in su o una volata di vento per richiamarle quasi alla vita. Qualche professore o professoressa bigotta ci riprendeva e noi scappavamo ridendo sommessamente per via delle nostre non troppo innocenti esperienze sessuali, al momento di solo occhi.
Il giorno prima il mio amico e compagno di banco Luciano aveva mangiato pasta e fagioli. Un pasto, quest’ultimo, pressoché quotidiano in ogni casa, per quei tempi di magra e povertà collettiva. Perché così facendo – si diceva - si recuperavano le cosiddette proteine necessarie per la crescita. Non a caso i legumi erano e sono detti la carne dei poveri. I ricchi invece mangiavano quella vera. E lo facevano ad uffa, se è vero com’è vero che quasi tutti zoppicavano a causa della gotta. A casa mia si mangiava carne solo la domenica, ma non la vaccina. Ci accontentavamo della ventresca dei suini, perché era saporita (per noi) e costava poco.
L’amico mi diceva, balbettando sotto voce, che aveva la pancia come il tamburo e gli doleva da morire. Per di più i crampi gli impedivano qualsiasi movimento, per timore di qualche sgradevole fuoruscita. Gli suggerii: “Perché non vai al bagno?”. E lui ci provò: “Professò posso andare al gabinetto?”. Ma l’altro, professore di Lettere a tempo perso, immerso com’era nella sua lezione di latino, non capì e rispose, quasi stizzito: “Stai zitto, altrimenti ti metto 2”.
Luciano, a questo punto, s’accasciò a sedere, richiudendosi in se stesso per la fitta che gli stava salendo dal corpo. Da un momento a l’altro sarebbe scoppiato e tutti ne avrebbero riso sul suo tragico-comico stato di salute. Fu allora che gli suggerii: “Su, su alziamo il banco e lasciamolo strisciare un poco, così il rumore dell’aria sarà attutito e nessuno si accorgerà di niente”. Il mio amico acconsentì subito e per due o tre volte provammo la mossa, mentre il prof, anziché incoraggiarci, ci frustava con il suo linguaggio semi-italiano: “Uagliò, statte fèrme, altrimenti vi caccio via”. Ma alle parole non faceva seguire i fatti, di cui ne saremmo rimasti anche contenti, perché una volta fuori la tribolazione del mio amico sarebbe cessata di colpo.
Il Prof continuava la lezione come se nulla fosse. Parlava, se ricordo bene, dei pronomi possessivi, ossia di “ipse, ipsit...”, una declinazione che mi costò in futuro anche il nomignolo di “Ipsorùm”, perché pronunciandolo in fretta sbagliavo l’accento. Il soprannome mi rimase addosso per tutto l’anno. Tornando a noi, ad un certo punto, Luciano acconsentì di riprendere il nostro esperimento di “spostamento” del banco, quale sistema, di attutimento della scorreggia. Finalmente dopo una inutile prova, ci ripetemmo ancora, mettendoci un po’ di forza in più. Trascinammo di nuovo il banco, ma il rumore corporale non coincise affatto e pertanto usci fuori dal corpo del mio amico come una liberazione, tanto da essere avvertito da tutti.
Anzi, il primo a sentire il colpo fu proprio il Prof., che si alzò in piedi e rivolto al nostro banco gridò a squarciagola “Porco!”. Luciano arrossì di colpo e distolse da me ogni accusa, mentre la scolaresca scoppiò a ridere a più non posso. La cosa si seppe in giro e per diversi giorni diventò il passaparola scherzoso per tutta la umanità di San Marco e Rignano.
Nella foto, pittura di Giotto nella Cappella fiorentina degli S