Antonio Del Vecchio
San Marco in Lamis, venerdì 8 novembre 2019 - Alla fine degli anni ’50, con l’avvento della società dei consumi e il conseguente miglioramento della qualità dell’esistenza, il reddito agricolo, come pure quello dei restanti settori produttivi, non basta più ad assicurare ai compaesani un tenore di vita all’altezza del tempo e della moda.
Per cui riprende impetuoso il flusso emigratorio, interrotto dalla Seconda Guerra mondiale, questa volta diretto non solo verso i Paesi europei più industrializzati (Francia Belgio e Germania), ma soprattutto verso il Nord Italia, con la fondazione di numerose colonie di compaesani a Torino (Fiat), a Milano e in misura minore a Roma e a Bologna e il resto in altre città. Sono gli anni del cosiddetto “boom” economico, celebrati in varie salse ed intenti nel Cinema, nella Letteratura, nella Musica e nell’arte in genere.
Dal paese partirono con la mitica valigia di cartone, oltre a famiglie intere, anche dei single. Di solito erano i primogeniti, maschi o femmine, a fare da apripista. Tra questi c’erano pure Ottavio e il suo amico. Quest’ultimo, 17 anni, con un breve passato di apprendista tutto fare; l’altro, poco più che ventenne, studente universitario a “tempo perso” in Lettere Moderne, ossia si recava in sede solo quando aveva i soldi per pagarsi il viaggio – soggiorno e sostenere qualche esame. Entrambi erano accomunati da due insopprimibili passioni, quella per le donne, e l’altra di farsi ad ogni costo un avvenire da soli, col proposito di richiamare in seguito il resto delle famiglie originarie. La sera prima della partenza, con destinazione Vattelapesca nel milanese, si diedero alla pazza gioia, ‘consumando’ nell’abitazione del suo amico una lunga e partecipata serata da ballo. C’erano persino degli amici forestieri.
Preso il treno nel Capoluogo, ovviamente affollato al massimo, e dopo un faticoso e lungo viaggio, approdarono alla Stazione Centrale di Milano. In un baleno furono presso la sottostante fermata del bus, il “38”, con corsa ogni 10 minuti. Ma Tito non lo sapeva. Per cui non appena ne sopraggiunse uno, salì sul predellino col suo bagaglio e di là cominciò a chiamare, anzi ad urlare, invitando il suo compagno di viaggio a raggiungerlo. Preso dalla vergogna, Ottavio fece finta di niente e raggiunse il luogo lemme lemme. Intanto, l’autista dell’automezzo pubblico, per evitare una possibile disgrazia, aveva obbligato il giovane a scendere dal predellino.
Così presero il bus successivo ed in un baleno furono a destinazione. Qui, in Tale dei Tali, ad attenderli c’era l’amico ‘Antoniuccio’, che li accompagnò subito dal proprietario di uno stabile vicino, che fece vedere l’alloggio da affittare. Si trattava di un polveroso ed angusto sottotetto. Concordarono subito il prezzo dell’affitto. Dopo di che rimasero in sede con tutti i loro ‘grattacapi’, di cui si dirà. Primo fra tutti quello della corrente elettrica, Nessuno disse ai due che il voltaggio era basso. Per cui quando attaccarono il fornello alla presa, ci vollero quasi tre ore per cucinare, anzi per ammorbidire gli spaghetti, diventati una vera e propria colla. Fungeva da tavolo un baule, che avevano coperto con una tovaglia portata dal Sud (sarà il tavolo da pranzo nei mesi a venire.
Dopo aver pranzato, provvidero a riassettare i letti: due brandine con materasso. Erano entrambi coperti da una coltre impolverata fino alle “ossa”. Schifati la presero con due dita e l’accantonarono all’angolo più remoto. Il bello si presentò durante la notte. Subentrò un freddo tremendo (nonostante la fine di agosto) che faceva battere i denti ad entrambi. Ad un certo punto Ottavio si alzò, prese la coperta impolverata e si coprì. Tito ne seguì immediatamente l’esempio e così trascorsero felici e contenti la loro prima notte di terroni o immigrati che dir si voglia a Milano e dintorni.
Il compagno – allievo di Ottavio, grazie alla sua tenacia e volontà di fare, non appena sarà conclusa l’esperienza lavorativa al Nord ed esaurito l’obbligo di leva, percorrerà una carriera per davvero invidiabile sia in campo professionale sia come uomo pubblico sino a diventare primo cittadino del suo paese.
Il giorno successivo l’amico Antoniuccio portò entrambi al cantiere, dove lui faceva il piastrellista a cottimo. Si trattava di rivestire interi grattacieli dai dieci piani in su, ubicati nelle varie zone di espansione urbanistica. Nel giro di pochi giorni, diventarono, a 21 mila lire alla settimana, dei provetti apprendisti. L’uno scaricava la malta all’arrivo della gru, l’altro a terra a riempire il cestello in lamiera. E così via per l’intera giornata. Non abituati a lavori manuali pesanti ed estenuanti di tal fatta, la sera tornavano a casa stremati. Nei giorni successivi, non potendo più accompagnarli il loro sub appaltatore con il suo automezzo, furono costretti a prendere il tram. Lo stato di pendolari perdurò per oltre tre mesi.
Fu una di quelle mattine che Ottavio incontrò Vittoria, una antica fiamma, sparita dal paese per seguire i genitori emigrati quassù alcuni anni addietro. Era tutta in ghingheri, con una gonna bleu scuro a spacco e una camicetta color celeste chiaro, ornata di arabeschi. Dopo uno scambio di “Oh!”, si abbracciarono per quanto poterono per via dell’automezzo malfermo. Lei sedette nel vicino posto libero.
I sobbalzi del tram, di tanto in tanto lasciavano intravedere le estremità superiori delle sue gambe ben sode e proporzionate al resto del corpo. Ad Ottavio il sangue cominciò a salire su, infervorando il suo dire: << Sono felice di averti incontrata. Non sei più la monella di un tempo, ma una vera e propria signora. Dove vai?. Tra una diecina di minuti - rispose - scendo e riprendo il mio lavoro. Come sai faccio la segretaria d’azienda”.
Per la verità il giovane non sapeva niente, né si era preoccupato di farlo, occupato com’era nei suoi trastulli d’amore. Pur tuttavia provò una emozione strana. Gli piaceva stare e conversare con lei. Se avesse potuto schioccarle un bacio, sicuramente sarebbe salito al settimo cielo. Ma non poteva. Primo, perché intorno c’era pubblico. In secondo luogo, perché aveva poco tempo per ripristinare un rapporto interrotto tanti anni addietro. L’uomo si fece coraggio e continuò: <<Che te ne fai di bello?! Hai un fidanzato? Si aspettava un secco no. Al contrario, lei disse << Eh, sì, ci sposeremo tra un anno esatto!>>.
Lui si raffreddò di colpo. Anche quando lei, dopo aver suonato l’avviso per scendere, gli si avvicinò e di impeto gli diede un bacio sulla bocca. L’altro trasalì e voleva ricambiarlo a dovere, ma non fece in tempo. Infatti, il tram era già giunto alla destinazione desiderata e lei fuggì via. Da allora Ottavio sperò che tornasse su i suoi passi e ricominciassero subito daccapo.
Una volta, c’era un matrimonio nel suo vicinato. C’era gente ben vestita che entrava nella chiesa parrocchiale, una di quelle moderne che si notano nelle periferie delle grosse città. Chiese che non ti dicono niente, né ti attraggono. All’interno si stava celebrando un matrimonio. Ottavio provò a curiosare. Entrando, si accorse subito che il luogo era stracolmo di gente. Guardò distratto verso l’altare maggiore dove il sacerdote in veste dorata stava officiando il sacro rito. Ma non si rese conto, né chi fossero gli sposi, né gli invitati. Per cui lasciò il tempio su due piedi e si allontanò. Dopo tanti anni seppe che la sposa era lei e che per di più lo aveva da subito notato, rimuginando dentro di sé il dubbio amletico: <<amo o non amo il mio sposo?. Che faccio, dico di no e lo pianto? Guardando nei dintorni i genitori, gli altri familiari e gli amici, desistette e tirò avanti nella funzione, fermamente convinta di potersi innamorare dello sposo strada facendo. Così fece.
Ma l’amore vero, come la prima volta, quello che l’aveva fatto sognare sin dal primo bacio, non lo riproverà mai più, sostituito come fu dalla routine, fatta di solo sesso e riproduzione. Di questo e di più glielo confessò lei stessa parecchi decenni dopo.
Anzi, in virtù di omonimia, passò un brutto periodo, immersa nella melma di false dicerie e diffamazione. Situazione, quest’ultima, esauritasi non molto tempo fa con la richiesta di perdono da parte della presunta “diffamatrice”. É un amore mancato che entrambi porteranno con sé sino alla fine dei loro giorni.
N.B. Disegno della pittrice Giovanna Mele (Salento)