Antonio Del Vecchio

Rignano Garganico, giovedì 31 maggio 2018 -  Mezzo secolo fa, la montagna di Rignano Garganico, come le cesine di San Marco in Lamis e il resto del Promontorio  erano dei veri e propri giardini dal punto di vista della bellezza naturale e della produttività umana. Era ricco di pregiati alberi da frutta e di terreni messi a coltura sia di graminacee sia di legumi e di ortaggi vari. Tutto questo accadeva grazie al lavoro indefesso e certosino dei cosiddetti “Cuzze” o “Cozzi”, ossia dei contadini di montagna.

 Erano chiamati così per motivi vari, peri distinguerli da quelli della pianura, considerati più nobili ed emancipati. E vediamo perché. I primi usavano come attrezzo di lavoro unicamente la zappa e le mani. E questo sia per spietrare e dissodare i terreni, spesso strappandoli con il sudore della fronte al selvaggio. Gli altri, invece, si cimentavano con aratri a trazione animale (e successivamente meccanica) sempre più evoluti e con l’uso di  altri attrezzi moderni e competitivi, necessari per le colture intensive e di alta produzione. A differenza della piana, dove regnava sovrano, il latifondo o gli appezzamenti di grande estensione e successivamente i poderi dell’Ente Riforma fondiaria, in montagna domina la parcellizzazione e le microproprietà. Per esempio a Rignano non c’era famiglia che non avesse un fondo di sua proprietà, spesso costituito da poche ara, e un ‘cuzze’ per la faticosa opera di spietra mento e la coltivazione del campo.

Il fondo, indipendentemente dall’estensione, di solito era fornito di un pagliaio (tipica costruzione in pietra) e una cisterna, spesso sostituito da un ‘pilone’ di acqua piovana, coperta da una lastra di pietra , per evitarne la facile evaporazione. Raramente il “Cuzze” dormiva in campagna. La sua giornata cominciava presto . Normalmente egli si alzava all’alba, prendeva il suo asino dalla stalla, di solito ubicata nel ‘risotto’ di casa e si avviava all’uscita del paese, spesso accompagnato dalla moglie e da qualche altro familiare, come aiutanti. Proseguivano a piedi sino alla chiesa di San Rocco (periferia estrema del paese) dove nel dirimpettaio c’era una grande Croce di Ferro (testimonianza della venuta dei passionisti nel 1907, si veda foto) issata su un piedistallo a gradini. Ci si accostava e si faceva salire in groppa la persona più debole, compreso il capo-famiglia, quando si muoveva da solo.

Al ritorno, si ripeteva la medesima funzione, ma nello scendere e tornare a casa. Tale Croce fu rimossa una quarantina di anni fa, non si sa perché ed essa è tuttora presente su uno strapiombo del Belvedere Est, ormai invisibile e soprattutto arrugginita.  Le famiglie di ‘Cuzzi’ più attivi in paese, ossia quelli che si tramandavano il mestiere da pare in figlio,  negli anni’50 erano i seguenti: i “Pesature” (Di Claudio); i Cazzaridde (Danza), i “Capetone” (Resta); i Marescialle (Danza); la “vicchiarèdde” (Soccio), Saziamurte (Nicola Vincitorio), Lu Masciale, Lu cuzze di Cammenecale (orgininario di San Marco in Lamis), ecc. Circa l’etimologia del termine, di ipotesi ce ne sono tante.

C’è chi lo fa derivare da un tipo di pasta fresca di farina di gran turco, tipico della tradizione culinaria contadina; chi per ironizzare sulla statura bassa e tarchiata dei contadini dell’epoca (ai primi del novecento, specie al Sud, la media non superava il metro e cinquanta; chi ancora col capo della zappa o dell’accetta, detto appunto cuzze o cuzzetto o addirittura col pezzo di legno più corto battuto nel gioco di “mazza e cuzze”, alias in rignanese “mazzaridde”.  Infine, un’ultima considerazione. Attualmente la montagna  è tutta abbandonata ; le macere di confine sono dirupate; i pagliai altrettanto; i terrazzamenti divelti; le cisterne interrate e nei campi regna sovrano il nicchiarico, senza speranza alcuna di un ripristino, soprattutto perché non c’è più una economia di sussistenza, ma quella del consumismo, dove la concorrenza uccide tutto.