Luigi Ciavarella
San Marco in Lamis, giovedì 23 gennaio 2020 - Da adolescente ero molto affascinato dai racconti che la mia nonna paterna mi narrava solitamente intorno al braciere ardente durante le fredde serate d’inverno. La rigidità della stagione e l’approssimarsi delle festività natalizie erano i momenti ideali in cui la tradizione del racconto prendeva forma e vigore. Infarcito solitamente di contenuti visionari, divisi tra mistero, paura e soprannaturale, la narrazione diventava il collante che ricostruiva un legame familiare intorno al quale nascevano storie.
Questi tre elementi erano fondamentali per l'essenza stessa del racconto, senza i quali la storia perdeva interesse. Già dal giorno dopo la festività dell’Immacolata il profumo del mistero inebriando l'aria anticipava un lungo periodo in cui complice il freddo (e le abbondanti nevicate) le serate diventavano luoghi in cui ci scambiavamo storie dominate quasi sempre dalla presenza del soprannaturale. Storie incredibili, intense, cupe e particolareggiate, che avrebbero raggiunto la massima espansione durante la vigilia di Natale. Erano racconti che mi tenevano col fiato sospeso, che narravano storie raccapricciati di apparizioni di defunti come di fantasmi che trascinavano pesanti catene o entità che urlavano grida strazianti nelle stanze vuote e abbandonate in qualche abitazione del paese sul luogo dove in passato si era consumato un delitto.
I soggetti erano solitamente spiriti penitenti colpiti da una maledizione, condannati ad espiare una colpa oppure erano state vittime di una disgrazia in età giovanile, che non si rassegnavano al tragico destino. Erano uomini, donne, adolescenti e anche bambini gli spettri che si aggiravano in alcune abitazioni fatiscenti del paese. Luoghi segnati su una mappa immaginaria di orrori, credenze e superstizioni che abbiamo imparato a conoscere attraverso il passaparola oppure attraverso i racconti, tetri e sfuggenti, che ci venivano trasmessi. Eteree figure che cercavano la pace eterna senza mai trovarla, diceva mia madre recitando per loro una corona di rosario.
Alcuni nostri conoscenti erano persino pronti a giurare di averle sentite quelle urla strazianti provenienti da quei luoghi sinistri, udite quasi per caso perché di questi fatti misteriosi si è testimoni sempre per caso come per esempio la strana processione dei morti (la notte tra il 5 e il 6 gennaio) la riapparizione di persone defunte il giorno prima che vi appaiono ad ignari passanti. In entrambi i casi sono sempre persone inconsapevoli coloro che vi assistono e testimoniano questi eventi soprannaturali, gente all’oscuro degli accadimenti.
Erano queste le fiabe oscure, ricche di particolari angoscianti e tenebrosi, che mia nonna paterna e mia zia, che era la sorella nubile della nonna con la quale conviveva, mi raccontavano per tenermi con sé. Le trame le ricordo ancora molto bene, soprattutto ho memoria dei passaggi in cui i fatti diventavano più acuti e penetranti quanto inspiegabili nella loro logica terrena, Finisce così tagliava corto mia nonna, non c’è continuità. Io me ne accorgevo quando stava per finire dal modo in cui la sua voce calava di tono assumendo una vocalità sommersa, sinistra, sospirante, drammaticamente evocativa come voler creare l’atmosfera giusta per sferrare il colpo decisivo. Un finale che giungeva al termine di una fatica narrativa notevole in cui tutto diventava teatrale, le parole, i gesti, la voce, affinché la storia avesse una sua legittima, agghiacciante verità. Sembra di vederla seduta intorno al fuoco mentre avvicina al mio orecchio il suo respiro per sussurrarmi le parole che mancano per completare il puzzle della paura, quasi a suggellare una vicenda che aveva per me tutte le caratteristiche per essere considerata veritiera. Non mi sfiorava nemmeno un attimo il dubbio che fosse una storia inventata.
Allora capitava spesso che, uscendo dalla casa di mia nonna per raggiungere la mia, che si trovava a distanza considerevole, di avere la strana sensazione di essere improvvisamente osservato da qualche entità dannata che fosse lì ad attendermi con lo scopo di rapirmi. Così, con circospezione, provvedevo a guardarmi bene le spalle per tutto il tragitto. La suggestione era tale che cercavo di inventarmi qualunque cosa pur di sfuggire alle sue attenzioni. La più semplice ed efficace consisteva di evitare posti isolati, ombrosi, scegliendo sempre luoghi affollati, pieni di gente, nel tentativo di sfuggire alle sue grinfie. Avvertivo l’ angoscia di trovarmi in ogni momento di fronte il mio carnefice. Non era d’altra parte difficile immaginare di incontrare persone trasandate, e questo sospetto non faceva che aumentare la mia ansia anche perché, nella mia fantasia adolescenziale, avevo bene in mente l'immagine dell’assassino che corrispondeva pressapoco ad un tipo mal vestito, sporco e con la barba incolta. Non poteva essere altrimenti. Insomma il classico individuo dall’aspetto truce e cattivo proprio come si vedevano al cinema.
Il potere che avevano questi racconti sulla mia e altrui psiche era devastante sino al punto in cui, a volte, nella oscurità delle ore serali, bastava un minimo, improvviso rumore per scatenare una reazione di paura impulsiva. La presenza del mistero al calar della sera era un’ombra che poteva annientarti. Noi ragazzi lo sapevamo ed eravamo sempre uniti e guardinghi. Come per esempio la paura che avevamo nei confronti dei lupunare (lupi mannari) che si aggiravano tra le nebbie delle periferie del paese gridando, con urla sovrumane, la loro straziante condizione. Mia madre mi assicurava che erano esseri normali durante il giorno ma che improvvisamente, a causa di un forte mal di denti, al calar del buio e per tutta la notte, si trasformavano in lupi cattivi in grado di sbranarti se avevi la sfortuna di incontrarli sulla tua strada. Insomma un pericolo per tutti coloro che si avventuravano in certi luoghi isolati.
I racconti e le testimonianze intorno a questi temi erano molto diffusi e particolareggiati. Qualche traccia significativa la si può leggere anche nel bel volume che Grazia Galante (Fiabe e racconti sammarchesi) ha dedicato all'argomento, qualche anno fa. La ricercatrice racconta i particolari di un episodio in cui una moglie si rende conto della duplice personalità del marito quando scopre in modo fortuito alcuni lembi di un fazzoletto lacerato tra i denti che lei gli lanciò durante l'incontro con la bestia. Così scopre che di avere un marito che di giorno era persona normale mentre di notte si trasformava in lupunare. Una forma di licantropia tutta nostra che sfugge al delirio provocato per esempio dagli effetti di una malattia mentale qual è la definizione esatta che ne da la medicina psichiatrica. Nel nostro caso si parla di soggetti che, sconvolti da un dolore insopprimibile, perdono il senno e diventano a loro insaputa delle pericolose bestie ma non perché affetti da un disturbo, seppure fantasioso poiché rimanda alla letteratura gotica romantica dell’ottocento, ma soltanto perché all’origine del caso vi è una patologia peraltro molto comune al genere umano: il dolore di denti!.
Ma noi non potevamo saperlo e pensavamo effettivamente che si aggirassero tra i vicoli deserti avvolti dalla nebbia esseri ripugnanti che tutti temevano (un’atmosfera peraltro molto suggestiva adatta per un film horror) che ululassero così forte da incutere terrore al paese. Così, lesto, mi sorprendevo a tendere l’orecchio dietro la finestra ogni qualvolta un benché minimo lamento provenisse dall’esterno immaginando chissà cosa. Forse era il latrato di un randagio ciò che percepivo o forse i riverberi di un urlo sovrumano lontano, chissà. Sembrava di vivere intorno alla figura di un personaggio uscito dalla penna di un Lovecraft o Bierce, magari immaginandolo mentre, avvolto in un strano pastrano di color nero, col cilindro in testa e lo sguardo di ghiaccio, attraversa la strada con passo nervoso. Oppure un lupo mannaro ululante uscito dalla pellicola di un film degli anni ottanta in cui vi si narrano le vicende di un ragazzo il quale morso accidentalmente da un lupo ne prende le sembianze durante la luna piena. O molto più semplicemente questa visione prorompente, mistificante, trasmessa di generazioni in generazioni, altro non è che il frutto della mancanza della televisione, la modernità, datosi che dopo la diffusione del mezzo tutte queste strane vicende di uomini che diventano lupi cessa di esistere improvvisamente, così come per incanto.
Un’altra storia dai tratti paradossali per la sua doppia natura demoniaca e superstiziosa ci veniva raccontata durante i rituali assembramenti serali intorno al tepore di un braciere (già evocato sopra) dove, insieme agli adulti, partecipavano molti bambini ed adolescenti. Mentre fuori la neve, abbondante e silenziosa, copriva pian piano l’intero paese creando apprensione da parte degli adulti, noi, non potendo organizzare giochi in ambienti così ristretti ci lasciavamo sedurre dai cunte che le nostre mamme ci raccontavano. Gli argomenti erano le streghe alla cui esistenza tutti credevano. Questo retaggio medievale era spesso usato per farci diffidare di certe persone anziane, in genere povere e prive di senno, che ogni tanto si manifestavano in paese. La loro condizione sociale e psichica era sufficiente per classificarle come streghe, senza dubbio alcuno, alimentando così un sospetto che presto si diffondeva dapprima nell’isolato dove esse abitavano e subito dopo nell’intero paese. Venivano additate come fattucchiere in grado di fare il malocchio, distruggere matrimoni e provocare malattie e nientedimeno additate come messaggere del demonio che vantava su di loro un potere di controllo.
Personaggi così erano evidentemente pericolosi per la comunità e, dal momento che l’inquisizione aveva cessato di esistere già da un pezzo e quindi di emettere sentenze di morte, la gente dei rioni praticava il pubblico pettegolezzo accusando povere donne di praticare la magia nera. Nella nostra strada secondo le opinioni di alcune vi era almeno una strega. Tutti, in quel budello di stampo medievale, giuravano di averla vista volare durante le notti di luna piena per mettere in pratica i suoi nefasti propositi. Un ombra si staccava dal camino e si librava nell’aria, cavalcando una scopa, sino a scomparire nel cielo oscuro. Raccontavano di averla vista, prima di compiere questo gesto, ungersi con uno strano intruglio sotto le ascelle e pronunciare alcune frasi di rito del tipo: “Sott’acqua e sotta vento e sotto le nuce di benevente”. Questa formula esoterica le consentiva quindi di ottenere poteri sovrannaturali che lei sfruttava per i suoi fini. Si racconta anche che alcune di queste streghe non fossero soltanto brutte sporche e cattive ma anche donne avvenenti di rinomate virtù, mogli esemplari che per qualche ragione erano diventate streghe.
Mia madre (e lo si può leggere anche nel libro di Grazia Galante, già citato) raccontava di un marito che, accortasi nel proprio letto dell’assenza della consorte, di notte, (ovviamente i mariti allora erano così stanchi che crollavano dal sonno al punto di non accorgersi di nulla) decide di indagare fino a quando non scopre la doppia natura della donna e, soprattutto, dove ella custodiva l’unguento magico. Così lo sostituisce con l’acqua con le conseguenze che vi lascio immaginare. Questa storia ha tutto gli ingredienti per inserirsi nel flusso narrativo delle credenze popolari. Ovviamente la strega di Benevento, (La Janara) che tanto timore incute nella nostra immaginazione, è soltanto un’idea ancestrale che, proveniente dalle oscurità del passato medioevo, è giunta sino a noi attraverso una narrazione che non ha alcun fondamento di verità ma a noi è servita per racchiudere tutte le storie che a vario titolo sopravvivono al sovrannaturale, superstizioso e creativo, ma sempre ricco di fascino seducente in un mondo oggi completamente mutato.
Anche il nostro paese, volendo forzare la mano, potrebbe aver avuto una origine demoniaca. Infatti il termine “Lamis”, che tutti sappiamo derivante da lamie quindi palude, acquitrino, potrebbe avere un altro etimo completamente differente cioè Lamie. Cos’erano le lamie nella mitologia? Vi lascio con la definizione che ne da Brian P. Levack : “Le strigae, uno dei molti nomi latini con cui venivano definite le streghe, erano anche chiamate lamiae, con riferimento a Lamia, la mitica regina amata da Zeus, che succhiava il sangue dei bambini per vendicarsi dell’uccisione dei suoi figli a opera di Era”. A questo punto un dubbio ci assale. E’ legittimo dubitare?
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di Luigi Ciavarella