Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, giovedì 21 novembre 2019 - Cosa si può dire di “un uomo” che fa rinchiudere (e morire) dentro un manicomio il proprio figlio e la sua donna? Dentro il manicomio c’erano entrati non perchè pazzi, ma per non dare più noie sempre a “lui”. Cosa si può dire? O nulla o troppo! Quest’”uomo” ha cambiato per parecchi anni le vite di milioni di italiani, non solo quelle della sua compagna e di suo figlio. Ha cercato di vincere battaglie e una guerra, delle prime ne vinse alcune, dell’ultima la perse.

Ma, prima della Seconda Guerra Mondiale ne combattè una molto personale: tenere lontano da sé sempre quella donna e quel figlio. Nell’ordine: Ida Dalser e Benito Albino. “Vinse” a modo suo quella battaglia famigliare, ma perse la guerra, quella che provocò nel mondo milioni di morti e feriti, e distruzione di interi Paesi. Una storia uscita fuori dagli archivi di Trento pochi anni fa, dove nacque la signora Ida Dalser, la donna che impazzì per quell’uomo. Il suo nome: Benito Amilcare Andrea Mussolini.

Di questa storia sconvolgente il regista Marco Bellocchio ne ricavò un film nel 2009, “Vincere”, con gli straordinari Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi. Ai margini sia della Grande Guerra che della Seconda Guerra Mondiale, una donna distrutta cerca in tutti i modi di ricontattare il suo uomo, conosciuto nel 1910 quando Mussolini era un giovane direttore del quotidiano socialista “Avanti”. Il futuro dittatore è fermamente deciso a guidare le masse verso un futuro anticlericale, antimonarchico e socialmente emancipato.

Ida Dalser e Mussolini hanno un figlio, Albino Benito. Poi il nulla: scoppia la prima guerra mondiale e si perdono di vista, la donna rincontrerà Benito molti anni dopo, quando è già famoso e ricco, e soprattutto sposato con Rachele, e a nulla varrà la lotta disperata che condurrà per affermare i suoi diritti come compagna e madre di suo figlio. Fine della tragedia? No! Le tragedie spesso non hanno mai fine, e con il modo di fare di lei, “costringe lui” a prendere provvedimenti: fa rinchiudere lei e suo figlio in un manicomio, sapendo che sono perfettamente sani di mente. Tragedia nella tragedia!

Quel “Vincere” è un urlo che ricordiamo per averlo sentito il 10 giugno del 1940 lanciato da Mussolini dal balcone di Piazza Venezia a Roma, quando dichiarò guerra alla Francia e all’Inghilterra. Il discorso iniziava così: “Combattenti di terra, di mare e dell’aria, Camicie nere della Rivoluzione e delle Legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Im­pero e del Regno d’Albania, ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia...” Per poi continuare per qualche minuto e concluderlo urlando: “… Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: Vincere! E vinceremo!!”

Il titolo del film “Vincere” si riferisce ad una vittoria non politica o militare, ma di “principio”. Colui che voleva dimostrare l’assenza di dio sfidandolo a fulminarlo in quel momento, con la “vittoria” sul figlio e sulla sua donna ha dimostrato che se non esiste una giustizia divina, a maggior ragione non ha motivo di esistere nemmeno quella terrena: un “fascismo anarchico”. Un modo di concepire la giustizia fatta senza regole, ma solo decidendo quello che sia più “logico” per l’Uomo.

Vittorie, queste, che mettono bene in evidenza di come l’umanità spesso non si dia delle regole uguali per tutti, ma solo quelle che ci sembrano giuste: a seconda delle circostanze. A seconda di chi decide. A seconda di chi si ha di fronte. A seconda di chi si voglia bene in quel momento. A seconda di quello che potrebbe essere il nostro futuro. Un “fascismo sentimentale” che forse di qualche traccia ne possiamo avere sentore anche molti anni dopo. In tutte le fedi politiche.

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio