Mario Ciro Ciavarella Aurelio
San Marco in Lamis, sabato 3 agosto 2019 - Le valigie con tutto ciò che c’è dentro, sono appoggiate a terra. In attesa del proprio treno, che porterà migliaia di persone verso i luoghi natii. È piena estate. Al centro della nostra Penisola, inteso come snodo ferroviario: Bologna. È da lì che transitano quasi tutti i treni che percorrono l’Italia dal sud al nord e viceversa.
I tabelloni elettronici dove vedere gli orari delle partenze e degli arrivi, sono quelli che quando cambiano gli orari, fanno rumore: “flop, flop”: metà numero copre l’altra metà che è già sotto, e quando si fermano, queste cifre, finalmente si capisce su che binario si parte, o se il nostro treno è in ritardo.
Le teste sono rivolte verso l’alto, il tabellone degli orari regola la vita di gente che non vede l’ora di arrivare dove nacque, e raccontare a tutti i parenti e amici, la nuova vita: quella di emigrante. Non è stato per tutti così, ma quel giorno lo fu per quasi tutti i viaggiatori in attesa di partire. Valigie piene di antico e moderno: quello che si è portato nel nuovo luogo di vita, e oggetti appena comprati e da regalare appena arrivati a casa.
Quella che è la nostra vita, è spesso racchiusa in una valigia: libri, dischi, abbigliamento, generi alimentari, souvenir… è racchiuso dentro pochi centimetri quadrati; quello che siamo. Un’identità che nel tempo difficilmente cambia: gusti e amori sono sempre quelli. Ogni tanto l’apriamo, per controllare che non abbiamo dimenticato nulla, e poi prendiamo quello che in quel momento ci serve: sigarette, depliant, occhiali da sole.
Angela Fresu, di tre anni, probabilmente era in braccio ad uno dei suoi genitori, quando finì la sua esistenza: alle 10,25 a Bologna, alla stazione centrale. È stata la vittima più piccola di età. Quando scoppiò la bomba. Che uccise altri 84 viaggiatori e ne ferì 200. Oppure Angela stava giocando con una palla in attesa del proprio treno, che non arrivò: il treno della sua vita non arrivò mai. Si fermò chissà dove, e insieme alla piccolina di tre anni, non prese tante altre vite che finirono le loro esistenze nello stesso giorno in cui terminò quella di Angela.
Chissà se la bambina avesse qualche suo piccolo bagaglio di viaggio: piccolo ma importante, con bambole e pettini in miniatura per pettinare le sue “figlie”, educandole da piccole a come comportarsi: essere brave, studiare e ubbidire alla mamma. Quando si è piccoli, si iniziano a fare le prove tecniche di vita: una pianificazione “ante litteram”, per vedere come orientarsi ed evitare i vari guai di una, spesso, lunga esistenza. E le bambole sono i partner ideali con i quali provare ad essere dei bravi genitori, delle brave persone, come saranno i figli che vorremmo.
Ma poi, quando si cresce, per quelli che vivono, si capisce che essere dei bravi maestri non è sempre facile: la nostra vita spesso dipende più dagli altri che dalla nostra volontà. È il caso che decide per noi. O dagli altri esseri umani, che si incontrano. O che ti tolgono la vita. Come accadde quel 2 agosto a Bologna alle ore 10,25.
Nella sala di attesa di seconda classe c’è anche Antonio Montanari, di 86 anni, la vittima più anziana di quel giorno. Ottantasei anni. Non sono pochi per poter aggiungerne altri: e se ci fossero, saranno solo repliche di una vita non sappiamo se allegra o triste. Diciamo: nella media, nel dubbio. Il suo treno, forse, quel giorno, poteva essere l’ultimo che prendeva. Treno inteso come possibilità, non sappiamo per cosa: è solo un’ipotesi. La valigia di Antonio potrebbe essere stata di quelle con agli angoli delle rifiniture di cuoio: quello duro, e che avrà fatto molti viaggi. Le valigie, tempo fa, si compravano una volta sola: e ti accompagnavano spesso fino alla fine dei tuoi viaggi.
Quando c’è la sigla di un telegiornale “edizione straordinaria”, subito si presagisce che qualcosa è appena successo: spesso di non positivo. Poi esce il giornalista, e già dal viso si intravede l’anteprima della notizia: viso troppo tirato, sicuramente tragedia appena avvenuta. La notizia di quel giorno non viene subito recepita appieno: la tragedia è avvenuta da pochi minuti. Ed è un susseguirsi di volti e lamenti che giungono in diretta dalla stazione di Bologna. Ambulanze, Carabinieri, tassisti, sirene che non smettono mai di urlare. Così come urlano centinaia di feriti e gente in agonia.
Lenzuoli bianchi dopo pochi minuti appaiono dal nulla. E sotto ci sono esseri umani non più riconoscibili. Alcuni di questi vengono caricati anche su dei pullman che li portano direttamene all’obitorio. Non si riesce a capire se si è in guerra oppure è successo un “semplice incidente ferroviario”. Ma poi lo si capisce: spesso l’umanità dà il meglio di sé, e mette dei punti esclamativi alla propria esistenza dicendo: “Siamo qui per sbaglio.” E lo dimostra…
“Siamo qui perché la Natura tanto tempo fa, si è distratta, ed ha creato un qualcosa che va contro la Natura stessa: distrugge la proprie creature”. Un aborto. Un errore evolutivo, imprevisto. Un qualcosa che dagli albori dell’umanità nessuno riesce ancora spiegare”.
Le macerie riempiono le sale d’aspetto, il bar e il primo binario, dove è fermo il treno “Adria Express 13534 Ancona-Basilea”. Lì dentro centinaia di viaggiatori non riescono a continuare il loro viaggio: la loro destinazione finale è Bologna Centrale. Per volere di chi, non lo sappiamo ancora. Dopo che i corpi sono stati sistemati dove si poteva, di molti non si sa ancora l’identità. Dopo i corpi, vennero ritrovati centina di oggetti appartenuti alle vittime: collane, orologi, fotografie, documenti e tanti altri oggetti che se potessero parlare direbbero: vaffanculo umanità del cazzo!!! (scusate se ho detto umanità…)
Anche gli oggetti non loro piccolo si incazzano. Fotografie bruciacchiate incollate su carte di identità che non riportava ancora la data di morte di quelle persone: erano in attesa che qualcuno prendesse il coraggio di scrivere: deceduto il 2 agosto del 1980. Una data riportata su una lapide gigantesca nella stazione di Bologna. È sempre lì. Una lapide enorme. Squartata. Che incute timore. Un monito eterno. E più la si guarda, e più sembra di vedere gli ultimi passi fatti da quella vittime. I loro piedi che stanno per salire il primo gradino del treno che dovevano prendere.
Ma quei passi non ci furono. Rimasero a terra. Con i loro corpi. Che non hanno potuto arrivare in una nuova destinazione. Per continuare a vivere e magari prendere altri treni e aerei. E poi raccontare la strage di Bologna in una casa di riposo ai loro nipoti, non come vittime, ma come spettatori: avendo saputo la notizia dal telegiornale del 2 agosto del 1980.
Mario Ciro Ciavarella Aurelio