Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, venerdì 19 aprile 2019 -  Un giorno, prima della Settimana Santa, cinque ragazzi che abitavano in via Cavour decisero di costruire una fracchia. Ma il fatto strano era, che prima di allora non l’avevano mai fatta. Però, se mai inizi, mai impari.  Siccome non avevano uno spazio libero a loro disposizione, decidono di fare la fracchia… in una casa; e la casa era quella di Carlino Rasoterra.  E armati di tutto quello che occorreva, prendono la legna e il piccolo tronco e iniziano a dare accettate in tutte le direzioni. Dopo un paio di giorni la fracchia inizia a prendere forma.

 Però la forma non era proprio quella di una fracchia, ma somigliava più ad un carciofo, mancava soltanto il ripieno con le uova.  I ragazzi, sprovveduti fracchisti, iniziavano a sudare freddo, qualcuno pensava che a quella fracchia le avevano fatto il malocchio quelli di vicino che guardavano dalla finestra di fronte. E pensarono di appannare la vetrina  con delle pezze, così nessuno potesse spiarli dall’esterno.

   I giorni passavano e i lavori proseguivano, ma di progressi non se ne vedevano. Pure perché, i ragazzi per non essere osservati da fuori, avevano appannati le finestre e in questo modo non vedevano nemmeno la fracchia che facevano… come stava venendo. Ogni tanto toglievano le pezze dalla finestra e guardavano la fracchia a che punto stava: se in principio la fracchia somigliava ad un carciofo, ora somigliava ad un fico, con la parte posteriore molto stretta e la parte anteriore perfettamente rotonda come un’anguria.

   “E allora”, disse qualcuno, “liberiamo dagli stracci le finestre così capiamo bene cosa stiamo facendo.”

   “Ma non ne parliamo nemmeno, non vogliamo mica farci invidiare da quelli  che stanno fuori?”, sbotta Carlino Rasoterra il padrone della casa.

   “E facciamo come dici tu, però, dobbiamo fare una cosa molto utile.”

   “Ma se non vediamo, come facciamo a sapere la fracchia come viene?”

   “E cosa dobbiamo fare?”

   “Prima di liberare le finestre da tutte quelle pezze che abbiamo messo, alla fraccchia bisogna togliere il malocchio.”

   “Cosa dobbiamo togliere, il malocchio?”

   “Hai capito bene, la fracchia non viene bene, non perché noi siamo incapaci, ma perché le hanno fatto il malocchio. Quindi, prendiamo: piattino, forbici, olio, sale e fiammiferi e iniziamo a dire qualche  giaculatoria.”

   “E queste giaculatorie chi le conosce?”

   “Le conosco io, tu non ti preoccupare”, risponde sempre lui, Carlino Rasoterra.

   Il fracchista-stregone Carlino, prende il piattino e butta alcune gocce di olio nel piattino e fa delle piccole croci con la mano sulla fronte(?!) della fracchia.

   “Fracchia nostra bendetta, butta fuori questa saetta, visto che non vieni bene, eppure noi siamo fracchisti!!”

   Dopo queste parole, Carlino buttò con forza nel piattino un’altra goccia di olio.

   “Ecco”, grida Rasoterra “si inizia a vedere una faccia con la testa abbassata.”

   “Ma quale faccia con la testa abbassata, è l’acqua sporca che sta nel piattino che sembra la faccia di una persona” risponde sempre quello di prima.

   Continua Carlino togliendo il malocchio: “A questa faccia che ci guarda dal piattino, in tasca non ci guadagnerà nulla, è inutile che ci fa il malocchio, la tua è solo tutta invidia”, e butta un po’ di sale sulle gocce d’olio.

   “E qua mi sembra che nel piattino ci sono più persone che ci vogliono far del male. E mi sembra che quelli che ci guardano dalla finestra di fronte forse è una famiglia intera.  Fammi prendere dei fiammiferi così gli metto fuoco”, e subito lo stregone improvvisato butta nel piattino tre fiammiferi.

   Da dentro il piattino esce una fiammata molto alta che per poco non accende anche la fracchia a forma di fico.

   “Madonna”, gridano tutti, “Madonna che fiammata.”

   “E’ buon segno”, molto contento e soddisfatto dice Rasoterra, “significa che l’invidia si sta allontanando. Visto che ci sono, ora butto pure la forbice nel piattino, in questo modo, a quegli spioni che stanno fuori li acceco.”

   E butta la forbice nel piattino con tutta la forza che ha in corpo. “Forbice, forbice che taglia, acceca gli occhi di quei vicini di casa, e non farli guardare più, per l’amore di Gesù.” Come finisce la giaculatoria, la forbice viene buttata talmente forte che dal piattino, che tutto quello che c’era all’interno, vola fuori: olio, sale, fiammiferi e acqua, tutto per terra.

   I fracchisti, vista quella specie di scoppio, tutti che scapparono via uscendo fuori. Con i talloni che toccavano i fondoschiena.

   Dopo un po’, uno alla volta, i fracchisti rientrano nella casa di Carlino Rasoterra. Ma le cose si mettevano male: la fracchia non riuscivano ad ultimarla.

   A quel punto pensano di chiamare un sacerdote per far benedire la fracchia, chissà con la benedizione, quella fracchia potesse perdere la forma di un fico e diventare a forma di fracchia.

   Chiamano don Angelo, il prete come si trova davanti a quella fracchia messa così male si mette a ridere.“Mi avete chiamato per far benedire una fracchia tutta storta? Pensavo che dovessi benedire una piccola statua di qualche santo.”

   “Solo con una benedizione di un prete possiamo togliere il malocchio che hanno fatto a questa fracchia”, dice quasi piangendo Carlino.

   “E va be’, ve la benedico così non ci pensate più”. Don Angelo butta acqua santa non solo sulla fracchia ma anche sui ragazzi, ancora fossero proprio loro quelli con il malocchio.

   “Ma solo quest’anno la fracchia sta venendo come la forma di un fico?” chiede il prete.

   “Sì, solo quest’anno”, dicono tutti insieme i fracchisti improvvisati.

    Il prete inizia ad avere qualche dubbio: “Ma da quanto tempo è che fate le fracchie?”

   “Francamente questo è il primo anno che la facciamo”, con un po’ di vergogna risponde sempre Carlino, il capo banda.

   “Accidenti a voi! Ma se voi la fracchia non la sapete fare, come potete costruirla una fracchia di punto in bianco?” Don Angelo iniziava ad arrabbiarsi buttando per terra tutti i paramenti che indossava. “Prima di tutto andate ad imparare come si fanno le fracchie, e poi la fate”. Il prete esce sbattendo la porta.

   I ragazzi tutti scoraggiati per un momento avevano perso tutta la volontà di andare avanti e di lasciare la fracchia come si trovava.

   Ma poi, sempre lui, Carlino, dice a tutti quanti: “Uagliù, visto che non si tratta di un malocchio, questo fatto significa che la fracchia la possiamo fare. Mica noi siamo più fessi degli altri che non sappiamo farla? Non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua e riprendiamo a lavorare sodo su questa fracchia a forma di fico.”

   Siccome il capo banda si era ripreso tutto di un colpo, anche gli altri ragazzi di quella cricca si fanno coraggio e riprendono a lavorare su quella fracchia chissà riescono a farle cambiare forma.

   Lavorando a più non posso e duramente, questo gruppetto di ragazzi riesce a far prendere alla fracchia la forma giusta. Veramente alla fine è uscita, dopo tanto lavoro, una cosa che più o meno somiglia ad una fracchia.

   Loro, tutti contenti, per finirla completamente, attaccano alla fracchia l’occorrente, le corde e le catene, per tirarla e buttarla fuori dalla casa di Carlino.

   “Tira di più verso di te.”

   “No, devi essere tu che devi tirare verso di te.”

   “Tirate ragazzi che la fracchia non si muove.”

   “Come non si muove?”

   “Non si muove, non si muove.”

   “E’ mai possibile: siamo cinque ragazzi e non siamo capaci di buttare fuori di qua una fracchia?” 

   Guardandosi attorno, il capo fracchista vede un particolare al quale non crede: la fracchia è più larga della porta di quella casa.  

   Allora pensano di calarla dal balcone. La prendono addosso e piano piano la calano dalla parte più larga. Due di loro si mettono sotto il balcone e tre la spingono da sopra.

   “Piano, piano, ancora la fracchia si rovescia di lato all’improvviso e facciamo tredici. Tanto lavoro per nulla. Tanto lavoro per nulla.”

 “Come non riusciranno a buttarla fuori?” Commenta  una persona che sta guardando tutto quello spettacolo che stanno facendo quei ragazzi.

   Nemmeno il tempo di terminare quella frase: non si rompe la corda che manteneva la fracchia?

   E’ sembrato come quando scoppia una bombola del gas: c’è stato un fuggi-fuggi generale.

   I fracchisti che stavano su quel balcone, stavano quasi piangendo, ma non per i loro amici che stavano di sotto e stavano prendendo la fracchia, ma per la fracchia che era rimasta con la bocca per terra e la parte posteriore in piedi.

   A questo punto, tutti stanchi e ammazzati dalla fatica, i cinque ragazzi decidono di farla finita con quella fracchia e decidono di riprendersi i cerchioni che stavano a cingere la fracchia e di darli ad altri fracchisti che la fracchia la sapevano fare. Tolgono i cerchioni, prima quello più stretto, sfilandolo da sopra, e poi tutti glia altri, fino all’ultimo, quello più grande che stava alla fine della fracchia.

   La fracchia invece di cadere per terra, riesce a mantenersi in piedi, come se una corda da sopra la mantenesse dalla parte stretta.

   I ragazzi rimangono meravigliati: “Ma come, la fracchia non si è capovolta? E’ rimasta in piedi?”

   “Sapete cosa dobbiamo fare? Propone sempre lui, Carlino “la vogliamo accendere così, in questa posizione?”

   Dopo che gli altri ragazzi ci hanno pensato un po’, rispondono di sì

   La fracchia trovandosi in quella posizione con la parte larga appoggiata a terra e la coda in alto, viene accesa.

   E in questo modo è nata la “fanoia” come noi la conosciamo: da una fracchia non è riuscita bene ed è caduta da sopra un balcone di via Cavour.

 

 

 

                             LA  FRACCHIA DE INTE LA STRADA DE VICCIONE

 

   Nu jurne, prima della Settemana Santa, cinghe uagliule de inte la strada de Viccione ce mettene ‘ncape che vulevene fa na fracchia.

  Lu belle jeva, che prima de ‘ndanne no l’evene ma fatta. Però, se ma ce accumenza, ma te ‘mbare.

   Seccome non tenevene nu belle poste spianate adova farla, decidene de fa la fracchia… inte na casa; e la casa jeva quedda de Carline Rasoterra.

   E armate de tutte quiddu che ce vuleva, pigghiene li lena e truncuncedde e accumenzene a menà taccarate a torte e a deritte. Dope nu pare de jurne la fracchia accumenza pigghià forma.

   Però la forma non jeva propria quedda de na fracchia, ma jeva cchiù na forma de na scarcioffela, ce mancava sule lu rechijine cu ll’ova.

   Li uagliule, novelle fracchiste accumenzavene a sudà fridde, cacchedune penzava che a quedda fracchia l’evene fatte lu malocchie quiddi de vucine, che spiavene dallu funestra de fronte. E penzene de appannà la vetrina cu delli pezze, accuscì nisciune puteva spiarli da fore.

   Li jurne passavene e la fatija jeva ‘nnante, ma de progresse non ce ne vedevene. Pure pecchè, li uagliule pe no jesse spiate da fore, jevene appannate li vetrine e a questa manera non vedevene manche la fracchia che facevene… come steva menenne.

   Ogni tante sguattavene la funestra e spiavene la fracchia a che punte steva: se a ‘pprimetà la fracchia sembrava na scarcioffela, mo ce assemmegghiava a na ficura: cu llu cule stritte stritte, e la parte de ‘nnante tonna tonna come nu melone.

   “E allora”, ha ditte cacche dune, “sguattame ‘ssi funestre accuscì capime bbone quiddu che stame facenne.”

   “Ma non ne parlame propria, che ce vulime fa affascenà da quiddi spiune che stanne fore?”, sbotta Carline Rasoterra lu padrone della casa.

   “Ma se non vedime, come facime a sapè la fracchia come ve?”

   “E facime come dice tu, ma però, ima fa na cosa necessaria necessaria”.

   “E che ima fa?”

   “Prima de sguattà li funestre da tutte quiddi cince che ime misse, alla fracchia l’ima luvà l’affascenatura”.

   “Che l’ima luvà, l’affascenatura?”

   “Ha capute bbone, la fracchia non ve bona, no pecchè nua non sciappame, ma pecchè ce l’hanne affascenata. Pe quesse, pigghiame: piattedde, froffecia, jogghie, sale e lumine e accumenzame a dice cacche giaculatoria”.

   “E quessi giaculatorie chi li sape?”

   “Li sacce i’, tu non te ne ‘ncarecanne”, responne sempe isse, Carline Rasoterra.

   Lu fracchista-strijone Carline, pigghia lu piattedde e mena cacche goccia d’ogghie inte lu piattedde e fa li crucettedde ‘mbacce la fronte(?!) della fracchia.

   “Fracchia nostra bendetta, jetta fore ‘ssa sajetta, che non vi ‘ntista ‘ntista, eppure nua sime fracchiste!”

   Dope questi parole, Carline mena inte lu piattedde n’ata goccia d’ogghie.

   “Lu vì”, grida Rasoterra, “ce accumenza a vedè na faccia cu lla cera vascia.”

   “Ma qualla faccia cu lla cera vascia, quedda è l’acqua vretta che sta inte lu piattedde che sembra la faccia de nu crestiane”, responne sempe quiddu de prima.

   Continua Carline luvanne l’affascenatura: “A questa faccia inte lu piattedde, inte la saccoccia non l’adda menì nente, è inutele che ce affascina, la tova è sule tutta ‘mmidia”, e jetta nu poche de sale sope li gocce dell’ogghie.

   “E qua me sembra che inte lu piattedde ce sta chiù de june che ce vo male”, dice Carline arriccianne la fronte. “E me sembra che quiddi che ce spiene dalla funestra de fronte serrave na famigghia sana sana. Famme pigghià li lumine accuscì li mette foche”, e subbete lu strijone sfasciate mena inte lu piattedde tre lumine.

   Da inte lu piattedde ajesce na vampa de foche che pe poche non appiccia pure la fracchia a forma de ficura.

   “Madonna” gridene tutte quante, “Madonna che vampata”.

   “E’ segne bbone”, cuntente cuntente dice Rasoterra, “segnifeca che la ‘mmidia ce sta alluntananne. Stegne che stegne, mo mene pure la froffecia inte lu piattedde accuscì a quiddi spiune de fore li ceche l’occhiera.”

   E mena la froffecia inte lu piattedde cu tutta la forza che te ‘ncorpe. “Froffecia, froffecia che sfruffeceja, ceca l’occhiera de quiddi vucine, e non li facenne spijà chiù, pe l’amore de Gesù”. Come funisce la giaculatoria, la froffecia la mena talmente forte che da inte lu piattedde, tutte quiddu che ce steva inte, zompa fore: jogghie, sale, lumini e jacqua, tutte pe ‘nterra.

   Li fracchiste, viste quedda specie de scoppie, tutte che ce ne fujene fore. Cu li calecagne che arrevavene ‘ncule.

   Dope nu poche, a june a june tutte che ce ficchene n’ata vota inte la casa de Carline Rasoterra. Non eva cosa: quedda fracchia non puteva arriesce bona.

   A quiddu punte penzene de chiamà nu prevete pe fa benedice la fracchia, chisà cu lla benedizione, quedda fracchia puteva perde la forma de ficura e deventà a forma de fracchia.

   Chiamene a don Angele, lu prevete come ce trova ‘nnante a quedda fracchia sfasciata ce mette a rire. “M’ite chiamate pe fa bendice na fracchia tutta storta? Penzave che jeva benedice na statua de cacche santaredde”.

   “Sule cu na benedezione de nu prevete ce po luvà lu malocchie che hanne fatte a questa fracchia”, dice quasa chiagnenne Carline.

   “E va be’, ve la benediche, accuscì ve luvate lu penzere”. Don Angele mena jacqua santa non sule sope la fracchia ma pure sope li uagliule, ancora fossene propria lore quiddi cu l’affascenatura.

   “Ma sule quist’anne la fracchia v’è mmenuta a forma de ficura?” addummanna lu prevete.

   “Scì, sule quist’anne” dicene tutte avvunite li fracchiste sfasciate.

    Allu prevete accumenza a mmenì cacche dubbie: “Ma da quanta tempe jenne che facite li fracchie?”

   “Francamente quistu è lu prim’anne che la facime” cu la faccia roscia responne  sempe Carline, lu cape banda.

   “Che sciate boia! Ma se vuja la fracchia non la sapite fa, come putite appariunarla na fracchia de punte in bianche?” Don Angele ce accumenzava a ‘rrajà menanne tutte li paramente che teneva pe ‘nterra. “Prime de tutte javete a mbarà come ce fanne li fracchie e po la facite”. Lu prevete ce ne va sbattenne la porta.

   Li uagliule tutte abbattute pe nu mumente jevene perse tutta la vuluntà de ì ‘nnante e de lenzà la fracchia come ce truvava.

   Ma po, sempe isse, Carline, dice a tutte quante: “Uagliù, viste che non ce tratta de affascenatura, quistu fatte segnifeca che la fracchia ce po fa. E che nua sime chiù fregna dell’ati che non la sapessime fa? Non ce perdime inte nu bucchere d’acqua e repigghiame a menà taccarate ‘mbacce sta fracchia a forma de ficura.”

   Viste che lu cape bande c’eva ripegghiate tutte na vota, pure l’ati uagliule de quedda cricca ce fanne curagge e repigghienne a fatijà ‘mbacce ddà fraccchia chisà cagnasse forma.

   Tante hanne fatte, tante hanne ditte, che questa cricca de uagliule riesce a fa pigghià alla fracchia la forma che ce mereta. Veramente alla fine jenne asciuta na cosa che cchiù o mene ce assemmegghia a na fracchia.

   Lore, tutte cuntente, pe funirla completamente, attacchenne ‘mbacce alla fracchia li zoche e li catene pe terarla e menarla fore da inte la casa de Carline.

   “Tira chiù la via tova”.

   “No, ada jesse tu che ada terà la via tova”.

   “Terate uagliù che la fracchia non ce move.”

   “Come non ce move?”

   “Non ce move, non ce move.”

   “E pure è na cosa: sime cinghe uagliule e non sime capace de menà la fracchia fore da qua inte?” 

   Spianne ‘nturne ‘nturne, lu cape fracchiste vede na cosa che non po crede: la fracchia è cchiù llaria della porta della casa.  

   Allora penzene de calarla dallu ballechette. La pigghiene ‘ngodde e chiane chiane la calene dalla parte chiù llaria. Due de lore ce mettene sotta lu ballechette e treja la vottene da sope.

   “Belle, belle, ancora la fracchia ce remmocca tutte na vota e facessime tridece. Tanta fatija pe senza nente.”

   “Come non ce l’anna fa a menarla fore”. Dice june che sta spianne lu cineme che stanne facenne quiddi uagliule.

   Non fosse stata parola: non ce va a stocca la zoca che manteneva la fracchia?

   Jè state come e quanne scoppia na bomma de gas: ha viste lu fuje-fuje delli crestiane che stevene ddà vucine.

   Li fracchiste che stevene sope lu ballecchette stevene quasa chiagnenne, ma nno pe li cumpagne lore che stevene sotta e paravene la fracchia, ma pe la fracchia che ce jeva rumasta cu lla vocca ‘nderra e lu cule tise.

   A quistu punte, tutte sfiancate e cunzumate, li cinghe uagliule decidene de farla fenuta cu quedda fracchia e decidene de pegghiarece li cerchiune che stevene ‘mbacce la fracchia e de darli a javete fracchiste che la fracchia la sapevene fa. Levene li cerchiune, prima lu chiù stritte, sfelannelu da sope,e po tutte quante l’ati, fine e l’uteme, quiddu cchiù rosse che steva sotta sotta.

   La fracchia invece de cadè pe ‘nterra, ce mantè tesa tesa, come se na zoca da sope la manteneva dalla parte stretta.

   Li uagliule rumanene sbavettute: “Ma come, la fracchia non c’è rummuccata? Je rumasta alla tesa?”

   “Sapite che ima fa?”, ce fa nnante sempe isse Carline, “la vulime appiccià accuscì come ce trova?”

   Dope che l’ati uagliule ce hanne penzate nu poche, dicene che scì.

   La fracchia messa de faccia ‘nnante e cu la coda la via de sope, ve messa foche.

   E a questa manera è nata la “fanoia” come la canuscime nua: da na fracchia che non enne asciuta bbona e che ce n’è caduta da sope nu ballechette de inte la strada de Viccione.

Tratto da: “Le Fracchie nella Passione di Cristo e nelle Leggende (moderne)” di Mario Ciro Ciavarella