Maria Schiena
San Marco in Lamis, giovedì 15 febbraio 2018 - Tra le tragiche conseguenze dell’ultimo conflitto mondiale vanno annoverati anche le migliaia di prigionieri italiani, catturati senza dichiarazione di guerra dagli ex alleati tedeschi. Altissimo infatti è stato il prezzo pagato dai nostri militari, in particolar modo da quelli dislocati fuori dal territorio nazionale. Anche se le autorità militari e politiche italiane avevano messo in conto che, nella prospettiva del distacco dall’alleanza con i tedeschi e della resa agli angloamericani, gran parte delle nostre forze armate operanti all’estero sarebbero state sacrificate, di certo non immaginavano un costo così alto.
E soprattutto non immaginavano che Hitler avesse pianificato con il suo Stato maggiore – già parecchi mesi prima del ritiro dell’Italia dalla guerra - di occupare il territorio italiano (Operazione Alarico) e di neutralizzare le forze italiane nei Balcani (Operazione Konstantin). L’ingente massa di uomini, catturati in Italia, in Francia, nei Balcani e in territorio greco, vengono destinati ai Lager del Terzo Reich e al fronte sovietico al servizio delle truppe tedesche. La sorte peggiore tocca alle migliaia di italiani catturati nelle isole dell’Egeo e dello Ionio, i quali dopo un periodo di dura prigionia vengono trasferiti dalle isole alla volta della terraferma, verso le stazioni di carico di Atene e di Salonicco su navi di fortuna e prive di ogni norma di sicurezza.
Spesso queste “carrette del mare” affondavano durante la traversata con tutto il loro carico umano sia perché si imbattevano nelle mine disseminate lungo la costa, sia perché silurate dall’aviazione anglo-americana. Durante gli affondamenti, che in base a fonti tedesche causarono la morte di circa 13.400 prigionieri, risulta che gli addetti alla sorveglianza si sono resi responsabili di azioni spietate, sbarrando le porte delle stive dove i prigionieri erano rinchiusi o sparando sugli sventurati che fra le onde tentavano disperatamente di salvarsi. Gli scampati sfiniti dopo lunghe ore fra le onde, invece di essere sottoposti a cure urgenti, erano rinchiusi nelle carceri in attesa che altre navi li conducessero a destinazione. Tra le vittime di queste tragedie si registra un gran numero di militari della provincia di Foggia.
Ma è stata proprio la mia città, San Marco in Lamis, a pagare il tributo più alto con 28 perdite. E se ci fosse dato di conoscere il destino di altri cinque militari, dichiarati dispersi nel settore Egeo, di certo il numero delle vittime salirebbe. La memoria perduta Per anni la storiografia non si è impegnata a ricostruire e a documentare adeguatamente le tragedie avvenute sul mare di cui furono vittime i nostri militari catturati dai tedeschi, dopo quel fatidico “8 settembre 1943”, nelle isole ioniche (Cefalonia e Corfù) e dell’Egeo (Rodi, Creta, Coo, Caso, Stampalia).
Va alle narrazioni dei reduci sopravvissuti, ai testimoni oculari greci e soprattutto allo storico tedesco Gerhard Schreiber (I militari italiani internati nei Lager del Terzo Reich 1943-1945” , Ed. USSME) il merito di aver riportato alla luce le innumerevoli vicissitudini affrontate da migliaia di prigionieri italiani, trascurati dalla loro patria. La dinamica degli incidenti, spaventosi bilanci La prima tragedia sul mare avviene nella notte del 22 settembre del ‘43 sul mercantile G. Donizetti, partito da Rodi (l’isola più importante del Dodecaneso) con a bordo 1584 prigionieri italiani, quasi tutti erano militari della Marina. La motonave, giunta nei pressi di Capo Prasonissi, viene bombardata da due cacciatorpediniere inglesi, Eclipse e Fury.
Il bilancio è tragico: nessun sopravvissuto. Un’analoga tragedia si ripete pochi giorni dopo, il 28 settembre, al largo dell’isola di Cefalonia sulla nave Ardena, in cui 720 italiani persero la vita, mentre l’intero equipaggio tedesco si salvò. Sempre nelle acque di Cefalonia altre navi cariche di prigionieri italiani coleranno a picco il 13 ottobre sul piroscafo Maria Marta (o Marguerita) e il 6 gennaio dell’anno seguente nel motoveliero Alma in seguito a brillamento di mine. Nel mese di ottobre 1943 altri disastri colpiscono le navi che trasportano gli italiani catturati. Il 10 ottobre, nella rada di Corfù, viene silurata da aerei inglesi la motonave Mario Roselli, carica di 5.000 militari italiani, di cui 1.302 perdono la vita.
Il 12 ottobre un altro convoglio, di cui si ignora la denominazione, con a bordo 700 militari italiani catturati nell’isola di Coo (Kos), viene attaccato da aerei inglesi e costretto a ritornare nell’isola con 160 uomini mancanti all’appello. Una settimana dopo è la volta del piroscafo Sinfra, salpato il 18 ottobre da Creta alla volta di Rodi. La nave, con 1932 italiani (numero che per alcuni sale addirittura a 2389!), venne attaccata più volte da velivoli britannici con bombe e siluri. E’ un inferno di fuoco e fiamme. I prigionieri ammassati nelle stive tentarono, in preda al panico, di salire sul ponte di coperta. Ma la loro fuga venne bloccata dai sorveglianti tedeschi con lanci di bombe a mano, che provocarono una carneficina tra quanti disperatamente cercavano una via di scampo. L’elenco delle tragedie sul mare, purtroppo, non è ancora terminato.
Nel febbraio del 1944, nelle acque dell’Egeo, altre due gravi catastrofi colpirono le navi che trasportavano i prigionieri italiani. L’8 febbraio la nave Petrella, partita alle ore 6.30 dalla base di Suda (Creta) alla volta del Pireo venne silurata dal sommergibile inglese Portsman. Aveva a bordo, oltre ai militari tedeschi e uomini dell’equipaggio, 3173 prigionieri italiani, quasi tutti provenienti dai campi di concentramento di Mastamba. Mentre sul luogo del disastro stavano accorrendo alcuni mezzi di salvataggio, la nave venne colpita da un secondo siluro e alle 11.30 si inabissò. I tedeschi impedirono agli italiani di raggiungere il ponte di coperta lanciando nella stiva bombe a mano che provocarono un’immane carneficina. Solo quando tutto il personale tedesco fu tratto in salvo, «gli internati rimasti illesi ebbero la possibilità di buttarsi in mare, ma anche in acqua sarebbero stati bersagliati da raffiche di armi automatiche».
Molti italiani devono la vita ai greci che in gran numero giunsero in loro soccorso. Gli abitanti dell’isola hanno raccontato che per giorni la risacca portò sulla spiaggia di La Canea decine e decine di corpi cui i frati del luogo diedero sepoltura. Secondo i dati della Wehrmacht, dei 3.173 italiani che si trovavano a bordo si salvarono solo in 527. Nell’affondamento del Petrella, quindi, persero la vita 2.670 italiani, cifra che nelle fonti italiane sale a quattromila. Un altro incidente sul mare si verifica pochi giorni dopo, nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 1944, sul piroscafo Oria (3.000 tonnellate di stazza), salpato da Rodi Egeo alla volta di Atene: vi erano imbarcati 4.190 prigionieri italiani e 30 soldati tedeschi addetti alla sorveglianza (Cifre registrate l’11 febbraio 1944 nel diario di guerra della divisione d’assalto Rodhos - Ba-Ma. RH 26-1007).
La nave scortata da tre torpediniere prese il largo alle ore 17.40, nonostante le avverse condizioni meteorologiche. Verso le 18.00 scoppiò una violenta burrasca al largo di Capo Sounion (Attica). Il capitano della nave, pur avendo ricevuto l’ordine dal comandante del convoglio di accostare verso ovest, per motivi sconosciuti continuò la rotta verso nord. A circa 25 miglia dal porto del Pireo il mercantile, a causa dell’infuriare del fortunale, andò ad infrangersi sulla scogliera sud-orientale dell’isola di Gaidouronisi (oggi Patroklou). Nonostante i segnali di soccorso inviati dall’Oria, le tre torpediniere di scorta continuarono a dirigersi verso il Pireo, dove giunsero tra le 22.00 e le 24.00 del 12 febbraio. E solo alle 23.30 venne data la notizia dell’incidente all’ammiraglio Lange, responsabile dei trasporti marittimi dell’area dell’Egeo, sottraendo così ore preziose alle operazioni di soccorso che, iniziate tra il 13 e 14 febbraio quando ormai la furia del mare aveva spezzato la nave e capovolto la poppa, riuscirono a recuperare solo pochi superstiti.
Le stime sulle perdite sono contraddittorie. Secondo i dati forniti dall’ammiraglio Lange si salvarono 22 tedeschi, 2 membri dell’equipaggio e 11 prigionieri italiani, i quali furono trasportati ad Atene e successivamente deportati in prigionia; in base alle testimonianze dei superstiti italiani, gli internati sopravvissuti furono 21; per la direzione dei trasporti del Pireo, invece, il numero dei prigionieri scampati al naufragio salirebbe a 49 unità. Nel 2010 Luciano De Donno, responsabile del Gruppo di studi e ricerca relitti “Submarina” di Lecce è stato anche promotore, insieme a Telis Zervoudis, della prima spedizione italiana nelle acque dell’isola di Patroklou, dove è affondata la nave “Oria”. Questi provetti organizzatori di spedizioni subacquee, nonché appassionati di storia, scandagliando i fondali marini sono riusciti a documentare con immagini fotografiche e filmati il relitto della nave e a recuperare molti oggetti appartenuti ai nostri militari. Ma soprattutto sono riusciuti a far riemergere la memoria di tanti ragazzi sfortunati, che nel fiore degli anni hanno concluso tragicamente la loro vita in fondo al mare.
Fonti consultate: Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Ufficio Storico dello SME, 1975) Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei Lager del Terzo Reich 1943-1945” , Ed. USSME,1992 H. F. Meyer, Blutiges Edelweiss, C.H. Links Verlag - Maria Schiena, Per non dimenticarli, I drammatici vissuti dei militari italiani negli anni di Guerra 1940-1945, A. Pacilli Ed., 2012