Mario Ciro Ciavarella

San Marco in Lamis, sabato 16 settembre 2017 -  Ci sono ombre che camminano da sole. Non vivono in simbiosi con corpi ed anime. Ma da sole. Segnano il loro passaggio strisciando su strade assolate, ma preferiscono il buio. Sono ombre che cercano di mimetizzarsi tra la vita e la morte. Un’apparente esistenza che cerca di farsi largo dove e quando può. Cercando di non essere troppo vistose. Troppe visibili a coloro che così hanno voluto. Sono ombre che non hanno la capacità di parlare, ma solo di ascoltare. Senza diritto di replica. Ma solo un mutismo che cerca nella sua esistenza di far arrivare qualche sussurro a chi ha voluto così.

 A coloro che hanno condannate le donne della ‘ndrangheta a convivere con le proprie ombre. Portandosi dietro di loro le vite che altri uomini e donne non possono comprendere. Sono le donne che vivono indirettamente la malavita organizzata in Calabria. Cercano di viverla fuori Regione, sotto falsa identità, così come i loro figli. Sono fughe familiari che non hanno fine, sempre alla ricerca di nuovi covi dove cercare di vivere come si può.

Quando il capofamiglia entra a far parte della ‘ndrangheta, il destino è segnato: la moglie e i figli hanno gli anni contati. E non resta che la fuga. Le donne scappano con la prole, lasciando il capofamiglia a sbrigarsela da solo. Se è ancora vivo. Ma sono delle fughe che prima o poi finiranno: le vendette trasversali in questi ambienti malavitosi sono frequenti. Quando non si può colpire il boss, oppure quando lo si è già colpito, e si decide di continuare, poi tocca al resto della famiglia.

Una fuga perenne che accompagna questi nuclei famigliari su e giù per l’Italia. Queste donne non possono diventare testimoni di giustizia, altrimenti la loro posizione peggiorerebbe, ufficializzando il loro passaggio dall’altra parte della barricata. Vivono in un limbo infinito: non è una zona ristretta, ma possono andare dove vogliono. La malavita è paziente molto di più di un pescatore che sta aspettando da mesi che un pesce abbocchi al suo amo. E’ una lotta di nervi, per vedere chi vive di più e meglio.

Non solo le donne di questi ambienti sono condannate a nascondersi, ma anche i loro figli, i quali non hanno una vita sociale come tutti gli altri. Niente gite scolastiche, pochissimi spostamenti e niente auto, questa potrebbe diventare una trappola mortale. Niente facebook. Queste donne portano con loro tutto ciò che riescono a ricordare della loro esistenza passata: non avranno un futuro. Vivono di ricordi che vengono trasferiti ai loro figli ricordando chi erano i loro padri. E il perché di queste fughe.

Come quando si racconta una favola, si cerca di romanzare il come e il perchè si sono allontanati dai pesi natii. Forse raccontano di gente cattiva che voleva fare delle cose butte ai loro genitori. E così si è deciso per la fuga. E magari i bimbi chiedono: “E papà, dov’è?” E questa è la domanda alla quale è molto difficile rispondere. Forse rispondono dicendo che è in cielo, oppure è in viaggio d’affari. O addirittura che il loro papà sta combattendo contro il drago che li sta inseguendo.

Le ombre, quindi, sono più di una: madre e figli. E si muovono tutte insieme come fanno le rondini quando migrano verso Paesi più caldi. È il calore che manca a queste ombre. Il loro colore ricorda il nero del burqa indossato dalle donne islamiche. Solo che il burqa “protegge” quelle donne dagli occhi degli uomini. Invece il nero delle ombre di queste donne calabresi non le protegge, ma sono emanazioni di sospiri, pensieri e tutto ciò che non ha voce. Ma solo sussurri che non hanno la forza di gridare al resto dell’umanità che le loro vite sono diverse.

E non come quelle delle altre.

Soundtrack: “Amara terra mia” - Domenico Modugno

Film recommended: “Sussurri e grida” di Ingmar Bergman

Mario Ciro Ciavarella