Mario Ciro Ciavarella

San Marco in Lamis, domenica 23 aprile 2017 -  Nel Medioevo non era raro che i corpi di alcuni santi (oppure parti del corpo) venissero portati in processione da un paese ad un altro come pellegrinaggio al contrario. Nel senso che non erano i pellegrini che si recavano dal santo defunto, ma erano i corpi dei santi che venivano portati ai fedeli, come testimonianza della certificata esistenza dei santi venerati.

 I corpi spesso mummificati venivano esposti alla venerazione dei fedeli mentre un religioso lodava le virtù in vita del santo in questione. E spesso si mostravano, su quello che restava del corpo, le ferite subite da questi uomini di dio (spesso erano dei martiri).

Adesso questa traslazione dei corpi dei santi non viene più fatta, eccetto  in alcune occasioni come quella del corpo di padre Pio traslato momentaneamente l’anno scorso per pochi giorni a Roma. 

Per un anno intero c’è stata una  traslazione “laica”, dove non c’è nulla di religioso, ma molto di sociale e politico. Non ci sono stati corpi di eroi civili da mostrare, dei quali non è rimasto nulla. Ma è stato esposto  quello che è rimasto di un’automobile.

Un’auto storica, non nel senso che l’”Automobil Club Italia” l’ha riconosciuta come tale poichè antica. Ma perché la nostra storia, quella degli ultimi trent’ani, l’ha riconosciuta come un’auto sulla quale è stata scritta parte della nostra vita. 

La storia di gente che lotta dove la politica non sia spesso capace di lottare. Ma sono i semplici, le persone della strada, quelli che vivono unicamente del proprio lavoro e della propria fede nel prossimo.

È l’auto nella quale sedevano i tre uomini della scorta, tutti e tre pugliesi, e che persero la vita durante l’attentato subito dal giudice Falcone, nel maggio del 1992.

Adesso quest’auto è tornata a Palermo in occasione del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci. Dopo aver girato in lungo e largo la Penisola.

L’auto del giudice dove c’era anche la moglie, è stata letteralmente  polverizzata dai 500 kg. di tritolo sistemati dai mafiosi su un tratto dell’autostrada A29, vicino allo svincolo per Capaci (Palermo).

Quello che rimane dell’auto della scorta lo potete vedere nella foto di questo articolo. È un’auto immobile. La “Quarto Savona Quindici”, così chiamata per ricordare il nome dato alla scorta dei poliziotti che proteggevano il giudice.

L’auto contenuta in una teca è stata esposta l’anno scorso anche in Puglia per sensibilizzare il nostro territorio e le nuove generazioni contro la cultura mafiosa.

È una reliquia laica. Non c’è nulla di sacro in quei rottami. Non ci sono i corpi o alcuni resti di quei tre poliziotti da esibire ad una venerazione  dell’eroico gesto: come scorta di un giudice “condannato a morte” appena gli venne affidato il compito di combattere la mafia in Sicilia insieme a Borsellino, il quale sarà assassinato due mesi dopo.

Ma sono stati esibiti i resti di una macchina accartocciata dove tra le poche cose che si possono distinguere c’è un numero, sul contachilometri si legge: 100.287, i chilometri percorsi fino a quel momento da quell’auto.

Ammirare i resti di quell’auto potrebbe provocare una sensazione simile ad una sindrome di Stendhal non dovuta alla visione di un’opera d’arte, ma alla visione di riflesso della schifezza della società in cui viviamo.

Vergognarsi di vivere in un Paese dove è possibile far posizionare mezza tonnellata su un’autostrada e nessuno sapeva niente. Vergognarsi di non sapere ancora tutto quello che è veramente successo (mandanti ed esecutori), addirittura vennero accusati come mandanti Berlusconi e Dell’Utri, poi l’accusa dei mafiosi cadde dopo poco tempo.

Vergognarsi di non essere riusciti a cambiare nulla nell’ambito di prevenire stragi di tipo mafioso e camorristico. La visione di quell’auto immobile potrebbe provocare sindromi di questo tipo: impossibilità nel cambiare.

Un’auto nella quale si potrebbero sentire, grazie a questa sindrome, anche le ultime parole che gli uomini della scorta si stavano scambiando.

Forse dicevano: “Siamo quasi arrivati, tra pochi chilometri siamo a casa, a Palermo. Anche questa è fatta. Dio ce l’ha mandata b…”, e poi il nulla, solo tonnellate di cemento e catrame sparsi per chilometri su un’autostrada siciliana dove si cercano ancora le tracce di troppe verità non ancora emerse.

Forse le tracce utili per chiudere l’inchiesta sono rimaste in quell’auto. Bisognerebbe “stirarla” quell’auto. Forse troveremmo i fantasmi di tre uomini che ci guardano, e vedono gente inerme (noi); mentre noi guardiamo i resti di quell’auto che adesso racchiude dentro di sé le poche speranza che abbiamo di cambiare. 

 

 

                                                                   Mario Ciro Ciavarella