di Luigi Ciavarella

San Marco in Lamis, domenica 4 settembre 2022 -  Prendo spunti dalla riflessione che Tonino Daniele ci sottopone (su "L'Attacco" e replicato su questo giornale il giorno dopo) riguardo il fenomeno dell'emigrazione, che come si sa ha prodotto nella nostra comunità, a partire dal dopoguerra, una profonda lacerazione sociale oltre che individuale. Non ho mai scritto di me in rapporto a questi argomenti ma l'emigrazione, seppure in maniera non traumatica, l'ho vissuta anch'io sulla mia giovane pelle.

Innanzitutto mio padre è stato un emigrante vero, questo è un dato, perché ha seguito tutta la dolorosa via crucis che comporta una simile condizione, e, nonostante avesse molto da raccontare fu sempre riluttante nel parlarne. Soltanto qualche volta sono riuscito ad estorcergli qualche notizia di sé. Non è stata una impresa facile però l'ho interpretato mettendo insieme, nella ricostruzione dei fatti, quei piccoli frammenti della sua vita vissuta, partendo dall'osservazione di qualche simbolo che lo identificasse come per esempio la sua valigia piena di libri e di almanacchi (in lingua francese) che lui teneva in soffitta, stranamente di contenuti socialisti e rivoluzionari che lui acquistò da giovane.

Di quel prezioso materiale sono riuscito a salvare ben poco dalla furia devastatrice di mia madre che un giorno buttò via tutto per fare spazio in casa. Innanzitutto le due valigie di cartone di cui una era servita per  custodire i libri che adesso stanno nel mio box, e qualche volume sfuggito alla mattanza. Il giorno che mio padre partì, nel 1948, insieme ad altri, l'alba doveva ancora sorgere in paese e il mezzo che li avrebbe trasportati, era un camion coperto che li stava aspettando con il motore accesso in un punto stabilito ma decentrato del paese. Il compito del conducente era di trasportarli sino alla stazione ferroviaria di Foggia. Da lì poi avrebbero preso il treno.

I novelli emigranti, stipati in uno spazio angusto, partivano quindi prima dell'alba, fianco a fianco, al buio, nella solitudine più nera, da un angolo deserto del paese senza che nessuno fosse lì a salutarli. Chissà quale fu il loro stato d'animo in quel momento, cosa essi pensavano, quale futuro li stava aspettando. Per tutto il tempo del viaggio. mi disse mio padre, il silenzio si tagliava a fette, nessuno pronunciò la benché minima parola. E' una immagine che stride con le cartoline illustrate che circolavano allora raffigurante la gioiosa partenza dei bastimenti verso l'America in cui si scorgevano le banchine del porto affollate di familiari, mogli, figli, madri, etc. che, sventolando fazzoletti, salutavano chi partiva.

Loro, provo ad immaginarli dapprima in quel camion e poi in quei vagoni di seconda classe, invece partivano nel silenzio più assoluto, furtivamente, come se si vergognassero di questa scelta, da sembrare persino dei fuggitivi, quasi un tradimento, e le destinazioni finali, dopo tante peripezie, erano terre sconosciutissime come il Belgio il cui approdo era un lavoro nelle miniere di carbone, e la Germania e la Francia, nei cantieri dove  c'era bisogno di manodopera per ricostruire le infrastrutture e i palazzi distrutti dalla guerra.

  A mio padre il destino scelse come destinazione la Francia dell'est, nella parte settentrionale confinante col Belgio (forse è un caso ma proprio in quel triangolo di terra tra Belgio Francia e Lussemburgo fu sepolto suo padre morto in guerra) e successivamente riuscì a spostarsi un po' più a sud, in quella striscia di confine con la Germania, limitata dal fiume Reno, che era la regione Alsazia (a Colmar per la precisione), dove visse il maggior numero di anni. Nel gennaio del 1971 approdammo anche noi, io e mamma, a Colmar, ricomponendo così la nostra famiglia per la prima volta sotto lo stesso tetto, e cominciò da quel giorno il mio status di emigrante.

Rispetto ai tempi di mio padre il paragone neppure si pone. A parte il freddo e il lungo viaggio in treno non abbiamo patito alcun'altra privazione. E, arrivati a Colmar, sin dal primo giorno fui pienamente consapevole che non ci sarebbe stato ritorno, se non per brevi periodi di vacanze.  Mi accorsi di essere in una nazione straniera quando, appena trovato lavoro, mio padre mi accompagnò alla gendarmeria della città per richiedere la carta di soggiorno senza la quale potevo circolare soltanto per breve tempo, come turista. La burocrazia fu il primo problema che ho dovuto affrontare. Il secondo fu la lingua che per fortuna lavorando in una fabbrica in cui si parlava sia in italiano (pochissimo) che in francese mi è stato agli inizi di grande aiuto e di conforto.

Però, come anche Tonino Daniele, comicamente descrive, il problema fondamentale della lingua, quindi della comunicazione nei rapporti con gli altri, in un paese estero, è difficile ed  io l'ho verificato su mia madre, la quale nonostante abbia vissuto in quella città per oltre cinque anni non ha mai imparato una sola frase in francese di senso compiuto. E l'aspetto tragicomico fu agli inizi, quando per fare acquisti nel negozio alimentare sotto casa, doveva prodigarsi con gesta inverosimili per farsi capire dalla commessa, mischiando nel suo linguaggio ibrido qualche parola in francese con tante altre dialettali, riuscendo tuttavia a portare a casa la spesa. Ma quanta fatica! Poi per fortuna aprirono un mini market a due passi da casa e tutto si risolse in bene.

 Toccai con mano la sofferenza dell'emigrazione soltanto quando vicino casa nostra venne un giorno ad abitare una famiglia di immigrati turchi. Non avevamo mai visti turchi prima d'allora e sopratutto mai una famiglia tanto numerosa peraltro mal sistemata in una vecchia ex stalla, situata all'imbocco della strada, riadattata ad abitazione. Non li capiva nessuno e vivevano tutti in una promiscuità spaventosa, e ad un certo punto fu necessario l'intervento dei vicini, (e forse anche delle autorità) a cominciare da mia madre, per il loro sostentamento.

 Gli italiani o originari di famiglie italiane ce n'erano tantissimi a Colmar. Ne ho conosciuti, per forza di cose, moltissimi. Il fatto curioso però fu che tra noi non si parlava mai in italiano, si comunicava soltanto in francese. Molti avevano origini venete e friulane, che erano due comunità molto riservate, ed altri invece, sopratutto tra i giovani come me di origini meridionali, nei week end spesso si davano appuntamento in un bistrot nella rue Vauban per stare insieme, bere e parlare di calcio. Ricordo che il locale era sempre molto affollato. Personalmente a parte quando c'era qualche concertino interessante, per il resto l'ho spesso disertato.

Vi erano anche alcune famiglie sammarchesi che i miei genitori conoscevano per soprannome e con i quali si era stabilito subito un rapporto d'amicizia. Ho sofferto anch'io la nostalgia per il mio paese e i miei amici come tutti gli emigranti lontani da casa però quando essa diventò insopportabile rifeci i bagagli e tornai a casa.  

 

LUIGI CIAVARELLA