Tonino Daniele
San Marco in Lamis, gioved' 1 settembre 2022 - Leggevo qualche tempo fa che i libri non li scegliamo: ci scelgono loro, ci piombano addosso come la sfortuna, ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come ricordava Franz Kafka in una lettera del 1903 al suo compagno di classe Oskar Pollak. Credo sia successo questo con il libro che mi trovo davanti tra le scartoffie ed il disordine ormai cronico ed irrimediabile della mia scrivania; è un libriccino di poche pagine che punge però, morde come un cane rabbioso che vuoi inutilmente sfuggire, scritto dal filosofo e scrittore tedesco Günther Anders, L’emigrante (Donzelli Editore, 2022).
L’autore, poco più che trentenne, emigrò per ragioni razziali, trasferendosi prima a Parigi, poi negli Stati Uniti ed, infine, a Vienna dove si stabilì definitivamente. Il suo essere stato un emigrante ha rappresentato “il valore aggiunto” di quello che doveva rimanere un breve articolo, una breve riflessione, pubblicato su un giornale nel 1962, perché – si badi - solo chi lascia la propria terra, i propri affetti, le proprie gioie riesce a leggere nel profondo dell’animo di chi non ha mai avuto una vita perchè da questa è stato defraudato; a guardare quegli occhi “saturi più di ricordi che di pensieri, immersi in una quotidianità senza inizio e senza fine”; a percepire i loro sogni, i loro desideri, e capirne la rabbia per non averli mai realizzati e, magari, maledire insieme quel Destino tanto avverso di uomini sempre sospesi nel vuoto e con la sola speranza di tornare di nuovo ad essere pensati e, dunque, ad esserci.
Un destino immedicabile, una ferita sempre aperta e sanguinante. Una vita consunta dalla nostalgia. Una vita che non ti appartiene, non ti è mai appartenuta, che non sei mai riuscito a controllare. I colori, sempre sbiaditi. Le luci, sempre soffuse; solo ombre. E non lasciatevi ingannare dai loro sorrisi e dalle loro risate: sorridono solo della loro tristezza e ridono solo del loro dolore, sempre persi nei loro silenzi e nei ricordi di quelle loro vitæ obbligatoriamente interrotte e sconnesse fra loro. Non ostinatevi a festeggiarne i ritorni: il loro è un esilio senza ritorno: “apri la porta di casa e come sempre non è già più quella la tua casa”, perché – come ricorda l’Autore – “qualsiasi cosa l’individuo assente che spera nel ritorno intenda o si aspetti, non si tratta mai soltanto del ritorno a un punto nello spazio, ma anche del ritorno a un punto del tempo (ormai divenuto inconsistente)”.
Certo: sospesi nel vuoto, uomini inchiodati “a mezza parete”, in preda all’angosciante timore di non poter ormai né raggiungere la vetta né tonare indietro, come ricorda Orlando Franceschelli nell’introduzione al testo, estranei ai richiami e ai rumori del mondo “come fossero nessuno”, occupanti “le chambres garnies della provvisorietà”, con il “futuro alle loro spalle”. Mio padre era solito partire al mattino presto, prima che albeggiasse, quasi volesse nascondersi da qualcosa o da qualcuno; la sera le valigie già pronte ed insieme uno scatolone unito con lo spago che conteneva le conserve fatte in casa. Quei sapori lo avrebbero legato ancora per un po’ alla sua terra, alla sua casa, alla sua famiglia, ma presto sarebbero finite. Per il viaggio, in una sacca a parte, del formaggio, una bottiglia di vino avvolta in canovacci e del pane, tanto pane, quel pane che con il passare dei giorni sarebbe indurito, nonostante tutti gli accorgimenti suggeriti dalla mamma, e la lontananza avrebbe reso amaro, sempre più amaro. Notte insonne per tutti, sentivo lo scalpiccio dei suoi passi per la casa, veniva a salutarmi nel letto: non voleva che mi alzassi, ma avvertivo soffocare i suoi singulti e le sue labbra umide di lacrime baciare le mie gote. Viaggio in seconda classe con carrozze di terza, “menù fisso” e ventiquattro ore di sballottamenti: Foggia – Milano – Milano – Frankfurt am Main con l’eco di quelle parole a contrastare lo sferragliare del convoglio: <papà quando ritorni?>, <a Natale, se Dio vuole!> e con la speranza di poter riprendere il filo di quella vita interrotta.
Un’esistenza balbuziente quella dell’emigrante, anche nel linguaggio, nelle parole, e l’Autore ci mette in guardia: “l’ambiente circostante incasella chi balbetta secondo il basso livello del suo modo di parlare, perché come ci si esprime, così si diventa”. Come non credergli! Mi vedo conversare con un emigrante, uno della prima ora, ormai anziano, che mi raccontò con amara ilarità di quando, desiderando mangiare delle uova, entrò, quasi intimorito, in un negozio di alimentari. Si accertò che non vi fosse nessuno nel timore di essere deriso ed invano girò attorno lo sguardo speranzoso di trovarli su qualche scaffale ed evitare – così - di dover aprir bocca. <Salve, vorrei delle uova>, il negoziante si strinse nelle spalle e, fissandolo scioccamente, gesticolava la sua incomprensione. Ripeté, sillabando la parola con tono più deciso: <uo-va, uo-va>. Niente uova, niente di niente, il negoziante ancora assente, quasi infastidito. Non gli rimase, allora, che accovacciarsi e chiocciare: <coccodè, coccodè> ed ecco materializzarsi le uova insieme – però - al riso sguaiato e strafottente del negoziante. <Per un attimo mi vergognai e furibondo, appena fuori dal negozio, mandai a fare in culo lui, il negoziante, e le sue uova, scaraventandole a terra>. Hello, I would like some eggs.
“Gente sempre in bilico sul crinale dove ogni passo minaccia di sottrarre anche l’ultimo appiglio saldo alla loro esistenza già sbilanciata”, per usare le parole dell’Autore; uomini (e donne) con un unico desiderio: quello del riscatto, della vendetta, sentimento che Luigi Zampa, con maestria, ha posto nelle parole di un emigrato italiano da Gela in Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971): “trentacinque anni di sacrifici, ho messo tre milioni e ottocentocinquanta mila lire da parte, quando arrivo a quattro milioni mi devo fare la mia bella vendetta, scendo a Gela, mi compro un bar e gliel’ho metto di dietro a tutti”.
Tutti hanno avuto la loro vendetta da servire; e quando chiesi ad uno di loro, arrivato dalla lontana Australia, dov’era emigrato ancora ragazzo, perché volesse trattenersi ancora in paese, mi rispose: <andrò via solo dopo la festa patronale!>, gli chiesi curioso il motivo, e lui con grande eccitazione: <mi devo fare la mia bella vendetta, voglio sedermi ai tavoli allestiti per la festa ed offrire da bere a tutti>. Non illudiamoci, alla fine la vita presenta a tutti il conto ed il loro, quello degli emigranti, rimane salato come il loro sudore, come le loro lacrime.
Quanto a noi lasciateci vivere con la speranza di essere stati “la vendetta” per qualcuno e non con il rimorso di averne accresciuto l’infelicità.
Tonino DANIELE
Pubblicato su l’Attacco il 30.08.2022