di Luigi Ciavarella
San Marco in Lamis, lunedì 1 agosto 2022 - Conservo un ricordo bellissimo di don Matteo, incancellabile dalla mia mente. Contrariamente a quanti potrebbero pensare di me, io da fanciullo sono stato un assiduo frequentatore della chiesa. Non avevo accesso direttamente alle funzioni, come alcuni miei amici facevano, però la domenica mattina, fedele ai sani principi di obbedienza che mia madre mi aveva inculcato, andavo alle nove del mattino alla messa dei fanciulli nella chiesa della mia parrocchia, San Bernardino.
Credo fossero i primi anni sessanta e in quel tempo abitavamo, io e mia madre, in via Custoza in un soprano con due camerette con balconcino, posizionato a metà strada salendo la via sul lato destro. La strada non era molto popolosa rispetto, per esempio alla adiacente Via Cappellini – che era interminabile (e anche faticosa sopratutto nell'ultimo tratto prima di sfociare su corso Giannone) e aveva anche una scalinata molto dolce. Quasi una passeggiata. Per questa caratteristica era la strada preferita da coloro che dovevano raggiungere la parte superiore del paese. Forse insieme a via san Martino, che era l'altra strada parallela di via Custoza, che aveva la caratteristica di essere abitata soltanto sulla parte sinistra e per questo motivo veniva denominata “la strada ad una faccia”.
Via custoza era la preferita anche perché rispetto alle altre era più larga quindi più ariosa, luminosa e poi ci abitavano persone molto cortese. Via Custoza faceva parte della Parrocchia di San Berardino, la comunità pastorale più numerosa del paese per estensione ma era anche il quartiere più popoloso e, fatto rilevante, aveva il maggior numero di famiglie abbienti, povere e quindi bisognose di aiuto. Di questi problemi don Matteo ne era pienamente consapevole e, dal modo in cui tanto mia madre quando gli altri, correva voce che egli si adoperasse molto nel provvedere ai loro bisogni. Non soltanto alle urgenze di sussistenza (di tipo alimentare, che era il gesto più frequente) ma si diceva anche che aveva “maritato” anche qualche povera ragazza, nel senso che le aveva comprato, a sue spese, il corredo della sposa per il suo matrimonio. Correva voce perché don Matteo non voleva assolutamente che questi “favori” fossero di dominio pubblico.
Erano “dicerie di popolo” per modo di dire ma erano fatti veri, lo sapevano bene coloro che avevano ricevuto l'aiuto. La discrezione con cui questi contributi venivano offerti era dovuta sopratutto al fatto che nessuno doveva sapere dello stato di indigenza del beneficiario. Questa forma di carità cristiana, concreta, discreta, anonima, e di per sé sufficiente per elevare don Matteo a nobile uomo della provvidenza, indicarlo come colui che aveva messo in pratica uno dei principi fondamentali della sua missione, fedele agli insegnamenti del Vangelo: aiutare il prossimo. Onestamente non saprei dire quanti altri sacerdoti abbiano fatto in paese altrettanto o soltanto si siano avvicinati a questo impegno o, se l'abbiano fatto, in che misura. Sul piano caratteriale era una persona, per i fatti esposti sopra, molto dinamica, coinvolgente ma anche autorevole, esigente, nelle sue manifestazioni più pratiche.
A volte, per noi fanciulli che la domenica mattina andavamo alla “nostra” messa delle nove, era d'obbligo rispettare l'orario e il luogo sacro, quindi stare composti tra i banchi e rispondere, quando ci toccava, con voce squillante al rituale liturgico. La chiesa di san Berardino non era molto grande. Ricordo che venivamo sistemati nella parte destra dell'altare, in una sorta di nicchia grande dove occupavamo tutti gli spazi disponibili disposti su diverse file di banchi. L' area era sempre piena come un uovo al punto che se qualcuno per un motivo qualsiasi aveva necessità di uscire dai ranghi diventava un problema poiché eravamo tutti stipati in quell'angolo. Don Matteo ogni tanto dall'altare ci lanciava uno sguardo e quando i suoi occhi si soffermavano su qualcuno in particolare era segno che il malcapitato o aveva sbagliato a pronunciare una frase oppure era distratto.
Nel secondo caso, qualora la distrazione persisteva, non era raro vedere don Matteo lanciare uno sguardo fulminante al discolo invitandolo a lasciare la chiesa. Ma in genere eravamo tutti ubbidienti e rispettosi l'un l'altro avendo coscienza dell'importanza della santa funzione. Ero diventato talmente brillante durante la Messa che don Matteo in una delle visite pastorali del periodo di Pasqua, quando il prete per conuetudine si reca nelle abitazioni dei suoi parrocchiani per benedirle, in una occasione chiese esplicitamente a mia madre se desiderava che io studiassi in seminario. Assicurò che avrebbe provveduto lui personalmente al sostentamento e diede serie garanzie in tal senso. Naturalmente mia madre, nonostante l'imbarazzo iniziale, rispose di no: “don Matteo, ti ringrazio ma ho soltanto lui”.
Don Matteo capì e la storia finì lì. Non so esattamente quali debbano essere le qualità di un sacerdote per accedere agli onori dell'altare, quali regole servono affinché venga riconosciuta la sua santità, non so quante altre testimonianze occorrono per rendere plausibile una verità conosciuta da tutti, ebbene aggiungo soltanto che se dobbiamo indicare un esempio di come un uomo di chiesa debba spendersi per gli altri allora don Matteo Nardella per me, peccatore e irriducibile non credente, ma molto rispettoso della fede altrui, è un santo.
di Luigi Ciavarella