Antonio Del Vecchio
San Marco in Lamis, lunedì 6 dicembre 2021 - Un giorno Alberto ci disse: “Sabato prossimo venite a pranzo da me a Stignano, mio zio è fuori!”. Era un lunedì di ottobre. Noi acconsentimmo subito e ci convincemmo anche di marinare la scuola. E ciò per rendere più gradito l’evento. E questo non a torto, perché il mezzo e il luogo ci permettevano di girare un po’ nei dintorni con la jepp e poi a piedi nel vasto giardino del Convento, impegnati a rincorrerci, a salire sugli alberi e a mangiare qualche frutto di stagione o a tirare qualche calcio a pallone nell’ampio cortile antistante, quello sgombro da materiale edile, che serviva alla ricostruzione dello stabile. Allora Convento e dintorni erano tutto un cantiere.
In quei tempi di magra, l’invito di Alberto fu ben accolto all’istante, perché lo stesso ci solleticava assai l’appetito e la fantasia. Ci aspettavamo, infatti, un pranzo luculliano, con abbondante pasta asciutta, preferibilmente fatta con i ziti, quelli che si rompevano a piacimento, condito con sugo ristretto di braciole di vitello o di galluccio ruspante, semmai anticipato da un antipasto succulento con salsicce e caciocavallo tagliato a spicchi di origine nostrana, stagionati a dovere. Come secondo piatto, ci si aspettava il resto della carne al sugo, qualche pezzo di agnello arrosto, accompagnato semmai (non tanto ci andava a genio) da insalata di orto, che qui, come pure nelle altre restanti strutture francescane, si perdeva e disperdeva a vista d’occhio. Non a caso erano gli stessi frati a coltivarla, lavorando sodo nel segno della regola o ricorrendo a qualche fratello laico, come nel nostro caso.
Veniva, poi, servito frutta a volontà di stagione, noci e castagne arrosto. All’ora stabilita, ci chiamò Fra Luigi, gridando a squarciagola: “Venite...e, venite...e, il pranzo è prontoo!”Accorremmo subito con l’acquolina in bocca e la fame a ginocchia. Arrivammo al portone trafelati. Ci fermammo un po’ per prendere fiato. Quindi, preceduti dal nostro Alberto, ci spingemmo dentro. Al di là della cucina c’era un tavolo lungo e grande, ben coperto da una tovaglia di colore e corredato di sedie massicce, forse di noce, dato il colore, o di castagno stagionato.
Sul tavolo c’era un grande contenitore di creta , che noi chiamiamo solitamente “skafaréje” coperto da tovaglia. Di rimpetto alle sedie s’intravedevano grosse fette di pane lunghe quanto una tavola da forno, un bicchiere di vetro e un coltello. C’erano ancora in vista delle caraffe di stagno piene d’acqua e nel mezzo del tavolo una grossa pagnotta (skanàte) di pane. Infine, ci fu servito come contenitore una scodella – piatto per ognuno. In tutto eravamo una decina, tra i quali c’era l’immancabile Primiano.
Il frate cercante, dopo la preghiera di rito, ci invitò ad iniziare, augurandoci: “Buon appetito!”. Riempimmo fino all’orlo il piatto d’insalata e con il pane da una parte e la forchetta dall’altra nel giro di pochi minuti, dopo una lunga sorsata d’acqua, terminammo, anche perché di quanto avevamo sognato non c’era neppure un barlume. “Siete sazi? - ci disse - Si, grazie! - rispondemmo in coro al nostro improvvisato servitore e, temendo che ci servisse un altro piattone d’insalata, quasi che fossimo pecore da latte, uscimmo fuori e prendemmo posto sull’automezzo.
Ovviamente con noi c’era Alberto che ci accompagnò fino a Rignano, giustificando che quanto accaduto era dipeso tutto dall’assenza dello zio. Se fosse stato presente lui, le leccornie erano assicurate. Non a caso in seguito, Padre Gerardo, per via dei pranzi ricchi di ogni ben di Dio e di torte a volontà, si ammalò di diabete /2 e visse per molti anni cieco fino a quando la morte non lo rapì in cielo.
Un altro pranzo mancato capitò al Monastero dei Benedettini Vallombrosani di Santa Prassede a Roma, durante il mio viaggio di rientro definitivo dal collegio di Montenero (Livorno). Venne a prelevarmi un mio cugino acquisito, zio Pietro che mi poteva essere quasi padre in termini di età, come pure la moglie Maria, di qualche anno in meno di mia madre. Era costui un viaggiatore nato e conoscitore del mondo, in quanto comunista acculturato di quelli alla Di Vittorio, a quei tempi nemici della Chiesa. Lo erano, perché gli stessi erano sostenitori tout court del regime sovietico, lo stato-regime dove addirittura si mangiavamo persino i bambini, specie se cristiani, pur di affermare le loro idee. Si propagandava…!
A quei tempi i treni erano meno veloci e le linee ridotte, come pure le corse. Per cui per arrivare a Foggia bisognava necessariamente sostare per alcune ore a Roma, per poi riprendere all’ora designata il cammino interrotto. Per facilitarci il soggiorno, l’Abate, telefonò al suo pari grado al Monastero di Santa Prassede nella Capitale, al fine di ospitarci a dovere, in attesa dell’ora del treno per il Sud, il nostro caro Sud. Non appena avviati, il primo pensiero ad esprimere zio Pietro fu quello relativo alla futura cena.